I vostri racconti inviati nell'ambito dell'iniziativa "Incipit per il Secolo XIX" (2) - Il Secolo XIX

2022-12-02 20:27:35 By : Mr. Chao Han

L'iniziativa si è conclusa alla mezzanotte del 12 novembre Ecco tutti i testi pubblicati in ordine di arrivo. Ricordiamo che non sono stati selezionati per la valutazione finale i testi che non rispettavano le indicazioni date per la partecipazione: non oltre le 3000 battute, spazi inclusi, con il brano inviato nel corpo della mail (non allegare documenti, non utilizzare Word o Pdf) via mail a incipit@ilsecoloxix.it

Affrontò l’ultima parte della salita a occhi bassi ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio, pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti e scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo; le speranze, quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

Era lì la casa della sua infanzia, così come se la ricordava, forse un pò sbiadita. Ed ecco le parve di sentire le grida del papà che dava ordini ai braccianti durante la semina o la mietitura e la voce di sua mamma che lo richiamava: "Torna a casa, il pranzo è pronto! Lo sai che sei fai tardi il papà si arrabbia!"

Poi la svolta, l'arrivo della nuova tecnologia, nuovi macchinari che davano una mano all'agricoltura, ma il papà non voleva cambiare, ancorato com'era alle tradizioni. Le discussioni sempre più accese con quel figlio che non sentiva ragioni, bisognava cambiare, modernizzare l'azienda.

E fu così che sbattendo la porta di casa, me ne andai senza neanche voltarmi indietro.

Ed ora eccomi lì con la valigia piena di sogni infranti. Il papà da lì a poco era mancato, ma mamma era ancora lì. Un pò più piccola, un pò più curva ma sempre sorridente. Appena mi vide non disse nulla, mi prese per mano e mi condusse nella nostra cucina dove mi preparò una tazza di cioccolata calda, come quando era bambino. Sì ero tornato, ero tornato per restare e lei lo aveva capito.

Affrontò l’ultima parte della salita a occhi bassi ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio, pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti e scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo; le speranze, quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

La mèta era vicina, riconosceva le case. Non c’era più ghiaia. Ora era terra battuta mista a tratto di asfalto che offriva resistenza al suo andare. Dove c’era terra c’era qualche pozza di fango. Era piovuto nei giorni scorsi. Forse anche stamattina presto. Non ricordava. Era stato troppo impegnato a prepararsi. Ricordava altro, certamente più importante di una pioggerella noiosa. Laggiù dopo quegli alberi c’era uno slargo e avrebbe raggiunto la sua destinazione.

Non ci aveva fatto caso se non ora. Non c’era in giro molta gente. Aveva piovuto probabilmente, c’era freddo ma perché non c’era quasi nessuno?

Ieri sera aveva sentito parlare tra loro mamma e papà. Aveva capito che il nonno era tornato. Il suo nonno. Il nonno preferito. Quello che lo faceva giocare, che gli faceva i disegni buffi. Era da tanto che non ne sentiva parlare e non lo vedeva. Era tornato!

Aveva deciso di fare una sorpresa al nonno. E anche ai suoi genitori. Aveva preso di nascosto metà della torta che la mamma aveva fatto il giorno prima, come ogni domenica. L’aveva impacchettata e ora ballonzolava al ritmo delle irregolarità della strada nel cestino della bicicletta.

E tutti pensavano che non sarebbe stato in grado di attraversare tutta la città e un po’ della periferia dove ricordava perfettamente abitava il nonno. Aveva imparato a memoria la strada che faceva con la mamma.

Chissà forse sarebbe stato sul terrazzo, quello alto, nella sua casa. Sempre vestito con la sua giubba da cacciatore di cui andava fiero.

Non aveva visto gli sguardi impauriti di sua mamma. Non aveva capito perché tutto quel segreto.

Si issò sui pedali per arrivare in cima alla strada come un vincitore in una gara ciclistica. Come Merckx, Moser o Gimondi. I nomi che citava sempre il nonno. Eccolo sul terrazzo, riconosceva a sua giubba. Adesso lo avrebbe salutato con la mano. Magari con lo sguardo sorpreso. Chissà se lo avrebbe riconosciuto, il suo piccolo monello. Ricordava il suo tono sempre scherzoso quando si rivolgeva a lui.

Avete visto? Ce l’ho fatta, sono quasi arrivato. Anche se ho solo 8 anni. Con la mia bici! Non è una bici da campione ma è la mia. Ha qualche parte rugginosa ma sono le cicatrici dei lunghi pomeriggi di gioco. Si sentiva un Moser anche lui.

Ora che il nonno è tornato devo raccontargli un sacco di cose. Me le sono appuntate tutte nella memoria.

Avrebbe girato lo sguardo lassù dal terrazzo e lui avrebbe rivisto la luce di quegli occhi, gli occhi del suo nonno.

Non si vedeva più sul terrazzo, probabilmente lo aveva scorto e stava scendendo per abbracciarlo, e stringerlo nella sua giubba che puzzava di fumo.

No, eccolo là, ancora sul terrazzo, si sta tirando su.

Adesso mi fermo, poggio la bici e prendo la torta, speriamo non si sia rovinata per i troppi sobbalzi.

Gli dirò “ciao Nonno, quanto tempo è che non ci vediamo!”

Cosa tiene in mano? Il suo fucile…

Perché lo punta da questa parte, non vorrà mica spara...

Affrontò l’ultima parte della salita a occhi bassi ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio, pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti e scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo; le speranze, quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

Intanto il treno si allontanava e vedendolo scomparire per un attimo desiderò non essere mai sceso. Rimase invece fermo in mezzo alla strada, gli occhi persi dietro immagini dai contorni annebbiati. Poi, lo vide, il paese era sempre lì, poche case addossate e nascoste sotto l’alto monte, quasi rannicchiato ai piedi della grande forza che lo sovrastava.

Giunse al piccolo fiumiciattolo che in quella stagione era ridotto a poco più di un rigagnolo. Dal ponte osservò distrattamente le rive sabbiose popolate di rane che, gracidando, riempivano il silenzio del pomeriggio mentre, oltre l’ombra mobile della grande quercia, il sole sfavillava sulle distese dorate di là dalla collina. E ricordò allora le stagioni fredde, con l’acqua che scorreva scura e scomposta e invadeva le banchine trascinando con sé le piante che crescevano sul greto, ma anche quelle calde, con il sole forte e le grida dei bambini che giocavano sulle rive, mentre le madri battevano le lenzuola sulle pietre bianche. Sentì ancora quelle voci e per un attimo i suoi occhi si accesero di una luce intensa, quasi un sorriso si posò sulle labbra pallide e sottili e sul viso scavato. Nel pomeriggio deserto era come una macchia scura nella luce accecante del primo pomeriggio. Si piegò, afferrò il manico della valigia e a testa bassa, ma con passo deciso, si inoltrò lungo il viale.

Nessuno si affacciò alle finestre o agli usci, la maggior parte delle imposte erano chiuse, ma si sentivano a tratti voci e canzoni che si mischiavano nell’aria ferma dell’ora del riposo. Superò la bottega, l’unica del paese, e poi la chiesa e la vecchia scuola, e continuò per la via che, superato l’arco, saliva tortuosa sul fianco della montagna, fino a quando la vide. Non era cambiata poi molto, la facciata mostrava qualche usura del tempo, ciuffi di erbacce spuntavano ai lati delle finestre, le scale e il grande portone erano coperti di foglie e qualche tegola si affacciava dal tetto. Ma era ancora lì. Non era bastato il tempo, non i terremoti, né la lontananza e il dolore a distruggerla. Le finestre, occhi spenti e chiusi con i loro tristi ricordi e le tante speranze disattese, attendevano ancora nuovi giorni e nuova luce. La sua casa lo aveva aspettato, resistente al tempo, alle intemperie e agli uomini.  Incurante delle malevolenze, della paura e della perdita, lo avrebbe ora accolto, lei sola, nell’antico e familiare calore del silenzio, ora che finalmente si riaffacciava alla vita, la sua vita. I ricordi dei visi e delle parole di chi non c’era più lo travolsero insieme alla perdita, e di nuovo sentì il peso del passato. Tornava.

Affrontò l’ultima parte della salita a occhi bassi ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio, pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti e scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo; le speranze, quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

Tre edifici squadrati comparvero in cima a un’altura. Lassù, mura bianche e ampie vetrate riversavano tutt’intorno riflessi dorati.

Ritirò le braccia sul ventre e la carrozzina si arrestò. Lì,  tra i due filari di tigli che costeggiavano la strada venne colto da uno stupore improvviso: la bellezza del mondo si palesava ai suoi occhi proprio ora che stava per abbandonarlo.

Uno scoiattolo grigio gli tagliò la strada, vorticò su per uno dei tronchi e scomparve. Del suo passaggio non rimase che un lieve crepitio di foglie. Ricordò di aver letto che quella razza di scoiattoli aveva soppiantato quelli rossi, autoctoni. È così che succede, pensò.

La palazzina centrale era protetta da una muraglia di cipressi e da un paio di guardie. Li soppesò con lo sguardo: braccia robuste ma ventre molle. Un tempo li avrebbe stesi in un attimo.

«Ha un appuntamento?», domandò uno dei due.

Riprese fiato. Aveva dolore alla mandibola e lo affaticava molto parlare.

«Che schifo, hai i denti guasti», disse l’altro.

Fece finta di nulla. Indicò il bancone del check-in sperando che lo lasciassero proseguire, ma niente, quelli non si spostavano.

Dalla reception però arrivò una donna. «Attenda qui» disse.

Scandiva le parole in maniera platealmente lenta, ma lui non si offese. Erano in molti a pensare che quelli della Vecchia Umanità fossero dementi.

La donna lo lasciò per raggiungere le guardie.

«Smettete di fare gli stupidi», sbraitò verso di loro.

«E dài», sbottò uno. «È scemo, non capisce niente. È un rudere».

«Rudere…», attaccò l’altro. «Sarà più giovane di te».

«Abbassate il volume che vi sente!», li ammonì l’impiegata.

«Ma chi, quello? Scommetto che è sordo».

Lui invece aveva ancora un ottimo udito, anche se in effetti era piuttosto insolito per uno della sua età. Rimbrottarli comunque sarebbe stato inutile. La Nuova Umanità odiava la Vecchia, soprattutto dopo la fine della guerra.

Era per questo che alla fine aveva deciso di accettare l’offerta del Nuovo Governo e aderire al programma di Trasmutazione. Nell’Aldilà Digitale per lo meno avrebbe ritrovato sua moglie, o quel che era di lei.

Chissà che gli avrebbe detto? Di certo l’avrebbe rimproverato, non era mai stata d’accordo con il suo  arruolamento.

Come un caro ricordo, un soffio di vento caldo lo accarezzò. Piegò la testa di lato e provò a ricordare il suo volto.

Affrontò l’ultima parte della salita a occhi bassi ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio, pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti e scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo; le speranze, quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

Affrontò l’ultima parte della salita a occhi bassi ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio, pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti e scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo; le speranze, quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

Affrontò l’ultima parte della salita a occhi bassi ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio, pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti e scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo; le speranze, quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

La macchina era già lì, in moto, il bagagliaio aperto. Sua zia stava appoggiata alla portiera. “Gesù! Sei ridotto a uno scheletro!” Gli prese il volto inespressivo tra le mani, lo abbracciò, pentendosi poi del contatto con quel sudore che le rimase appiccicato addosso. “Sotto casa tua è un macello. Troppi giornalisti, era meglio vedersi qui.” Caricò la valigia in macchina e salì.

“È andata bene, no? Ho seguito tutto io, eh! Stavo sempre ad aggiornare le notizie per capire.”

Sì, era andata bene. Legittima difesa, aveva stabilito il giudice. Ma lo Stato non era l’unico con cui bisognava fare i conti. Quelle immagini si erano diffuse in rete, erano diventate di dominio pubblico, e ora un’intera nazione che di colpo sembrava composta di avvocati penalisti e pubblici ministeri reclamava il diritto di esprimersi. Ognuno aveva la sua opinione, e pareva saperla più lunga degli altri. Quel tipo voleva solo spaventarlo, non l’avrebbe mica ucciso davvero!

Era un ragazzo di buona famiglia che voleva solo fare un brutto scherzo. Come si faceva a dare a quell’assassino la legittima difesa?!

Ma che ne sapeva lui che era uno scherzo! Come poteva capirlo? Se uno ti dice “mo ti ammazzo” tu gli credi.

La legittima difesa è uno dei diritti sacri della nostra costituzione, va rispettata!

Il video doveva essere la testimonianza di come divertirsi a terrorizzare un giovane. Doveva andare dritto sui social per esaltare quello scherzo ed il suo geniale autore, un noto youtuber che aveva fatto dello spingersi oltre il limite la chiave del suo successo mediatico. Mai i suoi collaboratori si sarebbero aspettati che diventasse la prova principale di un processo per omicidio.

Da quel momento la vita era un inferno. Non bastava il senso di colpa, ci si dovevano mettere anche i compagni di scuola, gli insegnanti, persino gli amici di una vita. A poco serviva la sentenza di “non colpevole” pronunciata dal giudice. Non era quello il problema. Non l’unico, perlomeno.

Per strada, dietro gli sguardi vitrei dei loro smartphone la gente lo fissava, mormorava. Le telecamere lo cercavano di continuo, gli obbiettivi di improvvisati fotografi erano onnipresenti. Avrebbe voluto dire loro di smetterla, di provare a capire, di fermarsi un attimo e riflettere. Ma gli occhi di vetro non lacrimano, non hanno sentimenti.

Sarebbe partito, era l’unica soluzione, l’aveva deciso mesi prima: non appena avrebbe avuto il diritto di lasciare il Paese, se ne sarebbe andato lontano, dove la sua faccia non era conosciuta, dove lui non era il sillogismo dell’azione che aveva compiuto, non era un “omicida”. Per poter andare avanti, doveva andare più lontano di quelle immagini. Rompere il cerchio di quegli obbiettivi. L’India, o la Cambogia, o il Laos, non importava. Voleva andare dove poteva essere il primo a vedere la luce di un nuovo giorno, di un nuovo periodo. Voleva andare dove gli occhi della gente sono ridotti a fessure, e forse per questo gli sguardi sono più leggeri, e meno difficili da sopportare.

Affrontò l’ultima parte della salita a occhi bassi ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio, pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti e scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo; le speranze, quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

Quell'edificio gli aveva sempre dato fastidio, ci passava davanti spesso ai tempi del liceo. Le mura grigiastre che in inverno si confondevano col cielo salivano dritte, a sottolineare l’austerità di quel luogo, specchio dell’umore di chi doveva entrarvi. Quel giorno gli appariva ancora più cupo. All'ingresso lo accolse una brunetta dai modi gentili. «Primo piano, stanza 7», gli disse. «Può aspettare nella sala di attesa.» Salì le scale misurando i passi, ritardando il più possibile quel momento; entrò nella piccola sala d’aspetto e crollò sulla sedia. Il viaggio era stato lungo e scomodo. Odiava spostarsi in aereo, ma quella volta non aveva avuto scelta. Si appoggiò con la schiena al muro, chiudendo gli occhi. Nel sogno aveva otto anni. Il sole gli scottava la nuca, ma non era sudore quello impiastrato con la sabbia e il sangue. Erano lacrime. Quel bullo gli aveva bucato le ruote della sua bici per l’ennesima volta. Sapevano tutti che era uno stronzo, ma era il figlio del proprietario dello stabilimento e nessuno voleva inimicarselo. Ma lei lo aveva difeso. Aveva litigato con il padre e lo aveva costretto a ripagare il danno. Mentre tornavano a casa lei gli aveva detto «Quando ti succedono queste cose devi dirmelo. Io sono qui!» Il suono di un clacson lo svegliò. Si alzò barcollando per raggiungere la finestra. Fuori era buio e la città brillava di luci. Erano anni che non tornava, e si domandò il perché. Usava sempre la scusa del lavoro. Se dici di avere problemi col lavoro nessuno può dirti niente. Una voce spezzò il silenzio. «È qui per la signora della 7?» Si girò e vide un ragazzo sui trent'anni con una cascata di riccioli rossi. Indossava un camice bianco. «Sì», rispose. Il medico annuì. «Per adesso possiamo solo aspettare. Come le ho anticipato al telefono, le speranze sono scarse, ma è forte. Potrebbe reagire bene alla cura.» «Grazie dottore. Posso fare qualcosa?» chiese lui con un filo di voce. L’altro accennò un sorriso. «Le parli», disse. «Non potrà risponderle, ma può sentirla. Di sicuro, le farà piacere.» Stanza 7, poggiò la mano sulla maniglia in metallo e dopo un attimo di esitazione la girò piano. Il bip ritmico dei macchinari e un acre odore di disinfettante lo assalì. Intravide il suo gracile corpo sotto le lenzuola. «Mamma», mormorò, inghiottendo un singhiozzo. «Sono qui.»

Affrontò l’ultima parte della salita a occhi bassi ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio, pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti e scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo; le speranze, quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

Da quando aveva perso il lavoro non si sentiva più un uomo. Le sue giornate tutte uguali erano fatte di tristezza e rimpianto. Il declino personale era stato rapido e non indolore. Dapprima aveva dovuto rinunciare alla sua casa, agli oggetti personali, poi alle sue abitudini, alle piccole gioie quotidiane. Il cappuccino al bar, il cinema del mercoledì, il libro scelto con cura e acquistato nella libreria del quartiere.  Rinunce importanti, radicali, necessarie. 

Ma quello che lo aveva ferito maggiormente era stata la mancanza di comprensione da parte dei colleghi, dei pochi amici fidati e dei parenti. Il giudizio era chiaro: se ti licenziano  devi aver combinato qualcosa di grave e quindi sei colpevole e ora devi scontare la pena. Nessuno lo aveva aiutato. Da quel giorno la sua vita era andata in pezzi. Non era mai stato particolarmente socievole, forse a causa di quel suo carattere un po' timido che tentava di mascherare con un atteggiamento sicuro e quasi spavaldo. Adorava leggere e studiare, era curioso di tutto e gli piaceva prepararsi bene in ogni occasione. Dal punto di vista fisico si teneva in gran forma. Si presentava al lavoro sbarbato, profumato, vestito con ricercatezza, con le scarpe sempre ben lucidate. Ma che cosa era successo? In quale momento tutto questo si era incrinato per poi arrivare alla rottura totale? Aveva infastidito qualcuno?

Ciò che lo lacerava interiormente era proprio questa mancanza di risposte. Si era rivolto ad un avvocato importante, avevano intrapreso insieme una causa di lavoro, ma tutto sembrava accanirsi su di lui, su questa vita semplice, ordinaria eppure così importante  e vissuta intensamente. La legge lo aveva calpestato, aveva dovuto vendere tutto per ripagare le spese processuali. In un primo momento aveva pensato di farsi giustizia da solo, ma non era nel suo stile e poi come avrebbe fatto? Dopo qualche mese di vagabondaggio, quando ormai stava pensando di chiudere la sua vita, aveva incontrato sulla strada un gruppo di folli che distribuivano abbracci gratis e incipit di romanzi, scritti a mano su piccoli fogli.

Si era avvicinato per la sua innata curiosità e mentre quelli declamavano ad alta voce le prime parole di testi più o meno famosi, lui sottovoce completava le frasi, ricordandole a memoria. Una delle partecipanti, una libraia accanita e resistente se ne era accorta e si era avvicinata a lui con grande rispetto. Per la prima volta dopo tanti mesi qualcuno lo guardava, lo trattava da uomo e si rivolgeva a lui con gentilezza. Scoppiò a piangere, come un bambino. Fu abbracciato, allontanato dalla strada, ascoltato, compreso, consolato. Difficile raccontare cosa successe dopo quel giorno.

E ora finalmente si trovava a quell'angolo del viale. La sua nuova vita poteva cominciare.

Affrontò l’ultima parte della salita a occhi bassi ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio, pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti e scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo; le speranze, quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

Nel frattempo elaborava le parole che le avrebbe detto. L’aveva conosciuta l’estate prima, a Ponza. Lui scorrazzava col suo motoscafo, lei in canoa.  La invitò a bere qualcosa sul cabinato, lei accettò. Laura si mostrò molto incuriosita. Di sé raccontò solo che aveva trentaquattro anni, era diplomata, viveva nel basso Lazio e cercava lavoro. Ma davanti al secondo Margarita, con mille domande seppe tutto di lui. Che aveva quarant’anni, un’azienda in Veneto, una casa a Milano, uno chalet in montagna, un’auto sportiva e un piccolo Picasso.  E che non si era mai sposato. Cominciarono a frequentarsi. A Carlo piaceva quella donna tanto minuta quanto dolce, quel sorriso che illuminava, quella voglia di vivere così esuberante. E anche Laura era attratta da quel tipo con i capelli ricci, premuroso, un po’ timido, ma con la personalità forte, di chi è abituato al comando. S’innamorarono, ma le vacanze finirono presto. Continuarono a sentirsi. A Carlo mancava quella presenza, ma di quel rapporto gli sfuggiva qualcosa. Voleva capire. Laura invece, sicura di sé, parlava spesso di matrimonio. Si videro a Natale, nello chalet di lui. Furono giorni felici. Carlo, come il solito, la riempì di attenzioni. Si lasciarono con la promessa che a Pasqua, lui avrebbe ricambiato la visita. Promessa mantenuta: ormai era a pochi passi da lei. Fu accolto con entusiasmo. Appena la vide, lasciò cadere il trolley, la strinse a sé e la baciò con passione. Laura sperava che quei giorni servissero anche per parlare del matrimonio, tanto bramato e sollecitato. Solo dopo il caffè, Carlo trovò il coraggio di sfogare il suo tormento: gli affari andavano male. Aveva venduto anche il motoscafo, il Picasso, lo chalet e un terzo dell’azienda. Però, aveva anche una buona notizia: anch’egli voleva quel matrimonio. Potevano vivere da lui. Pur senza il Picasso, gli era rimasta la casa di Milano. Gli affari sembravano andar meglio e lì, Laura avrebbe cercato più facilmente un lavoro. La donna raggelò. Sembrava che quell’uomo non l’avesse mai conosciuto. Cominciò a sparlare. Come si permetteva di chiederla in moglie? Che idee si era messo in testa? Ma chi si credeva di essere? E lo mise alla porta. Il “poveretto” si allontanò. Non senza urlarle: «Sappi che non ho venduto niente, gli affari vanno benissimo e ho comprato un altro Picasso!» Laura sbiancò, si scusò, lo rincorse, lo supplicò di ritornare. Carlo, uscì per sempre dalla sua vita.

Affrontò l’ultima parte della salita a occhi bassi ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio, pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti e scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo; le speranze, quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

Una nuova vita, era questo che avrebbe voluto trovare dietro l’angolo... la possibilità di ritornare ai suoi Vent anni, alla leggerezza di quando su quella strada si muoveva sicura, respirando il profumo del mare e godendo del calore del sole, dello splendore di quella Napoli che riusciva sempre a scaldarle l anima..

Chi la guardava adesso vedeva solo una donna fragile, consumata dalla vita e dal dolore, che trascinava una vecchia carrozzina piena dì robaccia, ma Ninuccia aveva avuto un sorriso abbagliante, lunghi capelli che danzavano nel vento, come quelli della sirena Partenope.

“Ninu’, statt’ attenta a te, la bellezza per le donne povere è una maledizione “, questo le ripeteva sempre nonna Maria, vedendola uscire fiduciosa dalla loro misera casa ai Vergini, dove vivevano tra strilli di donne logorate dai troppi figli e dalla disperazione.

Lei, invece, sentiva solo la forza e il coraggio che le infondevano gli occhi degli uomini, tutti, vecchi o giovani, la guardavano con gli occhi strizzati e il sorriso dei denti aguzzi da belve affamate.

E così, Ninuccia andava sicura di se, camminando a passo ondeggiante e a vederla così, bella e sfrontata, ricordava la bella pizzaiola di un episodio del film “ L oro di Napoli”, ricordava Donna Sophia, che “con i suoi promemoria”, come un estimatore aveva battezzato il suo seno straripante, toglie la pace agli uomini del quartiere.

Trascina la sua carrozzella sotto il sole cocente, il mondo intorno da molto tempo le è divenuto estraneo, nemico. Non ci sono più sguardi adoranti o penetranti su di lei, c è solo assenza di visibilita’,  il nulla intorno.

Un lungo cammino il suo…non si era mai mossa da Napoli, eppure la sua sofferenza , la sua vita e la sua innocenza violata, le avevano fatto condividere il lungo e doloroso cammino delle tante Donne vittime della guerra, della brutalità degli uomini in divisa di ogni parte del Mondo…

Un lungo cammino di dolore e di sangue univa le Donne dall’ Europa all’ Africa, dall’ Oriente ai duri giorni della Seconda Guerra Mondiale in Italia.

Povera  Ninuccia, le sembrava di vederli: le divise di colori diversi, ma, i loro occhi e i loro denti da lupo, tutti dello stesso tremendo colore.

-Piccire’, che t’ anno fatto? Le urla di nonna Sisina rimbombavano tra le mure della loro misera casa. Vedeva sua nipote con i vestiti strappati, lividi e sangue sul corpo, la luce solare dei suoi splendidi occhi spenta per sempre.. Ci vollero molti mesi di silenzio e dolore muto per riuscire a capire quello che era accaduto. Poche e  sofferte parole uscirono  dalle labbra ancora tumefatte di Ninnella: il ragazzo con cui usciva da un po’ di tempo, un giovane boys americano, le aveva detto che c era una festa in una casa dove erano alloggiati alcuni ufficiali; lei si era fatta bella per l’ occasione, arrivò in quella casa piena di gioia, avrebbe vissuto una serata danzante da vera signorina…

Quando arrivarono in quella casa, lui andò via e lei fu circondata da tre divise nuove e impeccabili, sulle quali vide solo occhi di lupo e risate di iene.

I ricordi, chi avrebbe mai immaginato che potessero pesare tanto.

A che serve mettersi in cammino se sai che non ci sarà nessuno ad aspettarti?  Un lieve scirocco le smuove i capelli candidi, sporchi e spenti ma, come allora, lunghi e ribelli, ultimo ricordo della sua lontana giovinezza, lei è convinta che il loro sventolare sia un piccolo simbolo della sua perduta libertà.

 Ninuccia si ferma, guarda il mondo intorno che la vede invisibile, si chiede – Chi vorrei trovare ad aspettarmi al mio arrivo, dopo un lungo viaggio?

La mia giovinezza, i sogni dei miei vent’anni, vorrei ritrovare la luce che avevo nel cuore e nell’anima e che quattro belve hanno spento per sempre…tanto tempo fa.

Affrontò l’ultima parte della salita a occhi bassi ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio, pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti e scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo; le speranze, quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

Finalmente i suoi occhi non avrebbero più rivisto quel posto in cui aveva vissuto gli ultimi dieci anni della sua vita, quel posto che gli aveva trasmesso sofferenza, solitudine, malinconia, ma che gli aveva anche dato la possibilità di comprendere i suoi errori. Era la sua opportunità e non l’avrebbe sprecata.

A pochi passi dall’angolo c’era una fermata del bus e si fermò proprio lì vicino, sotto l’ombra di uno dei pochi alberi presenti nella zona. Era piuttosto spoglio come posto, nessuna casa, nessun rumore, nessun’anima viva, ma solo una distesa di asfalto che sembrava quasi sciogliersi dal caldo. In quell’istante arrivò il bus, che si fermò pochi centimetri dopo di lui. Avrebbe dato di tutto pur di salirci, iniziò a cercare qualche spicciolo nelle tasche ben consapevole di non aver nulla, e così, come lo vide arrivare, lo vide anche ripartire e sparire dalla sua vista.

Il sole non voleva saperne di smettere di battere sulla sua nuca; si asciugò la fronte dalle goccioline di sudore e riprese il suo lungo viaggio. Si ripeteva che ci sarebbe riuscito, aveva la determinazione scolpita sul volto.

La sua mente era tempestata di mille domande, mentre andava avanti spinto dalla speranza. Dalla speranza di essere perdonato, di ricominciare a vivere, di sentire il calore di coloro che più aveva ghiacciato e lacerato. I ricordi gli assediavano la mente, era oramai libero nel presente ma ancora intrappolato nel passato. Ricordava di come aveva conosciuto lei, quella che definiva l’amore della sua vita; di come l’aveva tradita innumerevoli volte senza che se ne accorgesse, innocua e pura com’era; di come era stato bello fare l’amore con lei quando concepirono il loro unico figlio, un bell’ometto che a parer di lui fortunatamente assomigliava a sua madre. Ricordava di quando aveva iniziato a bere le prime birre, in quel bar sudicio e pieno di donnacce che non erano minimamente paragonabili alla bellezza della sua donna; di quando preferiva la compagnia e l’affetto di una birra a quelli della sua famiglia.

La sera tornava di rado: quando lo faceva, prima di crollare a letto dava un piccolo bacio sulla fronte di lei e di suo figlio quasi a scusarsi; quando non lo faceva crollava in mezzo alla strada o a casa di qualcun’altra, ma in particolare quella sera non tornò perché talmente ubriaco da violentare una donna. Ricordava del processo e di aver ammesso la propria colpa, ma soprattutto ricordava dell’incidente avvenuto in prigione, che gli aveva fatto perdere l’uso delle gambe ma che gli aveva fatto ritrovare la ragione.

Era notte inoltrata quando con le sue ultime forze spinse la sedia a rotelle di fronte a quella che una volta era casa sua. Un colpo al cuore. La speranza sgretolata in polvere. Le lacrime che come alluvione gli allagavano gli occhi e il viso.                 Erano proprio lì. Dalla finestra riusciva a vedere i loro sorrisi, quello del bambino, quello della donna e quello di un uomo che li meritava più di lui.

Affrontò l’ultima parte della salita a occhi bassi ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio, pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti e scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo; le speranze, quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

L’ippocastano che dominava la piccola piazza, ne era diventato ormai padrone, riempendola del suo maestoso mutismo. L’infinita costellazione di fiori bianchi, ormai esausti di polline, erano marezzati da quell’inconfondibile lacrima rossa e si stavano abbandonando già al dondolio di brezze e venti. Manuel era seduto sulla panca di pietra, sotto il grande albero,la custodia del suo amato violino affianco a lui.

<<Sei in ritardo. Come al solito!>>.Queste le prime parole che rivolse alla sorella, non appena l’ebbe davanti.

<<Sei in anticipo. Come sempre.>>.Gli fece eco Sara, sedendosi a sua volta. Fermò il carrello della spesa davanti i suoi piedi e ne estrasse un qualcosa di abbindolato in un fagotto di stoffa. Era la sua chitarra.<<Beh? Ma cos’è sta roba? E come mai il carretto della Sciura Pina?>>. Manuel trattenne una risata.

<<Ieri m’è rimata in mano la cerniera della custodia. Non volevo portarmela fin qui a mano>>.La giustificazione un po’ goffa di Sara. Anche Manuel tolse il suo strumento da una custodia, al contrario, impeccabile e si alzò. Sua sorella diede due pizzicate alle corde, per assicurarsi che tutto fosse in ordine.<<Cominciamo?>>.Gli domandò il fratello. La testolina bionda di lei annuì, e Manuel iniziò ad accarezzare le corde del suo violino. Subito la dolcezza di quel suono, riempì l’aria e quando anche dalle dita eleganti di Sara cominciarono a scivolar fuori note, improvvisamente la piazzetta sembrò enorme. Impensabile che quello spazio esiguo potesse contenere la forza dell’intreccio di quelle due melodie. Dalle finestre del vecchio edifico di fronte, le tende cominciarono a scostarsi e, come un piccolo esercito di tartarughe che fan capolino dal guscio, tanti volti spiegazzati di rughe, s’affacciarono a sbirciare dai vetri.

Una delle finestre del piano terra si aprì; il viso rubicondo e sorridente di un'infermeria salutò i due fratelli.<<Vieni Elsa!Ci sono i tuoi ragazzi. Vedi che anche quest’anno si sono ricordati del tuo compleanno?>>.Una donnina minuta, grigia dai capelli al viso, comparve dalla finestra. Sara alzò lo sguardo su di lei, per un attimo, per riportarlo poi immediatamente a terra. Quella donna che tanto lei e il fratello avevano amato, che pur non essendo loro madre, li aveva sempre considerati suoi figli, era diventata un imballaggio vuoto e quello sguardo senza memoria con cui li fissava a anni, lei non riusciva proprio a reggerlo. Unica speranza, sua e di Manuel, era che, quel piccolo tributo che le dedicavano ogni anno,potesse accenderle dentro una scintilla, un accenno di ricordo di quel che erano stati loro tre insieme. Al termine dell’esibizione, applausi sordi risuonarono da dietro i vetri; anche Elsa applaudì e accennò un timido sorriso. La finestra si chiuse, così come gli strumenti, e l’amarezza, per un attimo, attraversò la piazza, ritornata a farsi piccola.

<<Giulia ti aspetta a cena da noi domani sera.>>. Sara fece spallucce.

<<Vedrò di esserci.>>. Le rotelle del carrello ricominciarono a macinare sulla ghiaia.

Affrontò l’ultima parte della salita a occhi bassi ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio, pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti e scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo; le speranze, quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

Prima ancora di riuscire a vedere il portoncino verde a cui era diretto, sentì il cigolio dei cardini e subito dopo, insieme allo scalpiccio di una corsa infantile, un’esclamazione, quasi un urlo:

“Papà, papà!”, e una faccetta sorridente incorniciata di riccioli castani era già sollevata verso di lui, mentre piccole braccia gli circondavano le gambe, rischiando quasi di farlo cadere.

“Hey, campione: come facevi a sapere che stavo arrivando?” E intanto scompigliava con la mano libera i serici capelli sudaticci, con la consueta fitta che gli procurava, ogni volta, rendersi conto di quanto amore provasse per quel bambino, di quanto gli mancasse la sua presenza costante.

“Stavo di vedetta dietro alla porta e ho sentito le ruote del trolley. Vuoi che ti aiuto io a portarlo?”

“Ti ringrazio, ma è pesante, per te.”

“Ma io sono forte: senti che muscoli!” Abbandonò l’abbraccio scostandosi da suo padre perché potesse vederlo bene e piegò un braccio alla maniera dei culturisti. Nicola si abbassò a tastarlo: “Perbacco, hai proprio ragione! Qui sento un muscolo che è cresciuto parecchio, dall’ultima volta!”

“Te l’avevo detto!” Sprizzava orgoglio da ogni poro.

“D’accordo, allora: però tiriamolo insieme, che con la ghiaia si fa più fatica.”

Si avviarono a fianco a fianco, la mano grande dell’uomo e quella piccola del bambino infilate nella maniglia della valigia, verso casa.

Lucia li aspettava davanti al portoncino della villetta. Aveva lo stesso sorriso che indossava sempre quando con loro c’era Pietro, così diverso dall’espressione corrucciata che invece gli riservava quando erano soli. Ma oggi gli sembrò di scorgere qualcosa di diverso, in quel sorriso, di più sincero. La guardò, speranzoso,  sentendo che il suo cuore accelerava i battiti.

Lei si fece da parte per farli entrare: “Ciao”, gli disse, quasi come se non si rivolgesse proprio a lui, quasi come se si sentisse un po’ in imbarazzo; e intanto scompigliava i capelli del figlio esattamente come aveva fatto lui poco prima.

“E tu vai subito a lavarti le mani, se vuoi fare merenda”.

Mentre Pietro correva in bagno, lei lo guardò di nuovo, più a lungo di prima ma sempre con lo stesso sorriso, poi, lentamente, sollevò una mano per fargli una carezza.

“Sono contenta che tu ti sia deciso. So che non sarà facile, ma stai facendo la cosa giusta. Se sarai forte, potrebbe essere un nuovo inizio, per noi.”

Nicola non poteva credere alle proprie orecchie, non aveva sperato tanto. Lasciò la valigia nell’ingresso e seguì sua moglie in cucina. Pietro era già là con un bel bicchiere di latte davanti. Gli sedette accanto e lo guardò bere avidamente, come aveva fatto lui troppo spesso, e non bicchieri di latte, e sentì forte la consapevolezza che quella fosse un’altra vita. 

Affrontò l'ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d'altra parte c'era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto la doccia fino a sera. Il viaggio, pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo; le speranze, quelle che riponeva nello sguardo e nell'espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l'angolo del viale.

Finalmente era arrivato alla stazione. Cominciò a pensare che gli sarebbe bastato salire su quel treno e la sua vita sarebbe cambiata per sempre.  Lentamente, trascinando il suo bagaglio salì su quel benedetto treno, controllò il suo biglietto, prese posto a sedere, sistemò il suo bagaglio e si sedette accanto al finestrino. Il treno partì e il suo viaggio ebbe finalmente inizio. Tirò un sospiro di sollievo pensando al fatto che finalmente ci era riuscito, che stava per ricominciare, dopo tutto ciò che gli era accaduto. Lui voleva solo aiutare solo rendersi utile, ma la giustizia a questo mondo è soggettiva. Non si pentiva affatto della sua azione, ma per le conseguenze che aveva portato, ci avrebbe pensato due volte a rifarlo. Una vita per una vita pensò, anche se quella che aveva stroncato aveva lo stesso peso di quella che aveva salvato.

Dopotutto chi è che decide il valore di una vita umana rispetto ad un’altra, solo il Signore può farlo. Lui certamente non era degno di paragonarsi a Lui, Cadde addormentato e iniziò a sognare; sognò quella via di quel paesino calabrese dove tutto era cominciato, dove la sua vita era peggiorata, per una singola azione a fin di bene. Il ragazzino che urlava, che chiedeva aiuto: lo stavano picchiando. Chiunque nei suoi panni l’avrebbe fatto; si scagliò contro l’aggressore, e ingaggiò una colluttazione. La rabbia al solo pensiero di quello che quell’uomo stava per fare al ragazzino gli coprì gli occhi, ma quando tornò in sé oramai era troppo tardi, l’uomo non si reggeva più in piedi. Le sue mani, come la sua anima erano oramai macchiate e lui non poteva farci niente, lo aveva ucciso.

Il bambino era salvo ma quell’uomo era morto, ed era stato lui ad ucciderlo. Poi il sogno diventa confuso e frenetico, un insieme di immagini sfocate con suoni indistinguibili che gli riaffioravano: le urla, le sirene, il processo e la prigione. Non c’era cosa più umiliante del carcere, lui un uomo da bene dietro le sbarre come un comune e volgare omicida! Si svegliò di botto! Il signore gli ha dato un’altra possibilità, ora può ricominciare, suo fratello lo aiuterà, lì troverà un nuovo lavoro, una casa e potrà riabilitare la sua vita, forse potrà ricominciare.

Affrontò l'ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d'altra parte c'era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto la doccia fino a sera. Il viaggio, pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo; le speranze, quelle che riponeva nello sguardo e nell'espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l'angolo del viale.

Strattonò un’ultima volta il suo bagaglio per guadagnare il centro della piazza. Poi si fermò. Le strade erano deserte, come mai prima d’ora le aveva vedute, e i raggi del sole colpivano la pietra rimandando riverberi tali da rendere difficile tenere gli occhi aperti. Mille respiri stanchi di anziani signori, non di più: quello era quanto rimaneva ad animare un borgo medievale che lentamente si stava avviando verso il suo canto del cigno. Corignolo stava morendo. Non c’era quasi più traccia né dei suoi abitanti né della sua antica storia. Lei lo sapeva, e se aveva deciso di tornare a casa, nonostante tutti i trascorsi, era solo per quella ragione. A 38 anni era finalmente riuscita a compiere il doloroso nostos che l’avrebbe portata ad affrontare la morte di suo padre, di sua madre  e di sua sorella. Lavinia cercò di allontanare quei pensieri. Si fermò, si guardò intorno e lo vide. Jeans, t-shirt azzurra, capelli lunghi e neri lievemente mossi dalle folate di scirocco che ogni tanto soffiavano, portando con loro il fruscio delle fronde degli alberi. Stava apparecchiando i tavoli esterni di un elegante caffè letterario che sorgeva alla destra dell’antica Chiesa madre. Non lo vedeva da quasi 20 anni, ma le ultime notizie che aveva avuto le dicevano che si sarebbe dovuto trovare all’estero. Invece no. Lui era lì. Rimase senza fiato per la sorpresa. Nello stesso istante, Sergio si fermò. Sollevò lo sguardo e la vide. Le scarpe dalla punta di metallo, i pantaloni neri impolverati, una maglietta rossa sformata e quei capelli lunghi, castani e ricci, resi crespi dalla terra che vi si era depositata sopra. In mano il manico di un trolley e sulle spalle uno zaino da campeggio dal quale facevano capolino le teste di due picconi, una palina e un caschetto giallo da cantiere. Era questo, dunque, il reale aspetto di un’archeologa? Non ebbe il tempo di chiederselo a lungo. La vide posare a terra il suo zaino e correre verso di lui. «Sei tornato…» «Sì. Sei tornata anche tu». La stretta, sicura e accogliente, delle braccia di quell’amico appena ritrovato la rassicurò. Gli occhi le si riempirono di lacrime. Lavinia, ora, ne era sicura: prima o poi, in quel posto dimenticato da Dio nel cuore dei Peloritani, tutti coloro che con dolore erano dovuti andare via sarebbero ritornati.

Affrontò l'ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d'altra parte c'era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto la doccia fino a sera. Il viaggio, pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo; le speranze, quelle che riponeva nello sguardo e nell'espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l'angolo del viale.

Dopo pochi metri intravide la casa. Gli alti pini marittimi erano cresciuti, abbracciandola. Passò da dietro facendo scivolare il trolley dalla porticina di metallo tenuta in piedi dal muretto a secco. Il grido di un gabbiano gli fece alzare la testa. Lo osservò dirigersi verso il mare e quella sensazione di fuga lo prese di nuovo alla gola.

Si fermò e respirò piano, come aveva imparato, appoggiando le mani sulle cosce e abbassando la testa. Riafferrò il trolley e avanzò verso la casa. Si vide più giovane di qualche anno, i capelli scompigliati e l’aria sconvolta. Stava fuggendo, disorientato e braccato. Aveva percorso a ritroso lo stesso vialetto, cercando di cancellare dalla memoria quello che aveva fatto.

Avanzò quasi barcollando, sentendo lo stomaco stringersi a ogni passo. Girò intorno alle pareti color crema con l’intonaco scrostato e si ritrovò davanti al giardino allestito per il rinfresco del battesimo. Il rosa invadeva ogni angolo, appiccicato come lo zucchero filato quando piove.

Lei stava sistemando i fiocchi lungo la scala, già troppo perfetti. Si voltò come se lui l’avesse chiamata, restò un momento immobile, felice e un po’ delusa di vederlo lì. Poi gli corse incontro per fermarsi a un passo e abbracciarlo piano.

«Mi fa piacere che tu sia riuscito a venire» gli sussurrò piano all’orecchio come quando da piccoli giocavano nascosti dentro la tenda montata in salotto.

La finestra era aperta e lasciava che lo sguardo arrivasse fino a uno spicchio di parete e al lampadario di Murano.

«Certo» le rispose seguendola in casa.

L’attese nell’ingresso fino a quando lei non tornò con la bambina. Un fagotto bianco troppo coperto con quel caldo, ma non glielo disse.

Guardò la nipotina senza fare alcun gesto, senza chiederle di poterla prendere in braccio.

«Ora noi andiamo, ci vediamo qui dopo la cerimonia».

Lui le sorrise e le fece un cenno con la mano mentre si allontanava.

Si voltò verso le scale, poteva fare il vigliacco o salire.

Scelse la seconda alternativa, in fondo era andato per quello. Salì fino a metà per poi lanciare uno sguardo alla porta chiusa della cucina e permettere al passato di conficcargli vetri affilati negli occhi.

Sul pianerottolo, bussò alla porta chiusa. Attese un paio di minuti e con la mano sudata afferrò la maniglia.

Suo padre era disteso a letto, lo sguardo acquoso e la bocca semi aperta storta da una parte, il segno tangibile di quello che gli era accaduto.

Il sole entrava dalla finestra inzuppando il pavimento vicino all’armadio e lui si fermò lì.

«Papà, mi dispiace di aver ucciso la mamma» disse, «ero arrabbiato con voi, e in un attimo il coltello era nella sua pancia. Non avrei mai voluto farlo».

La sua voce risuonò opaca e roca mentre scrutava l’espressione immutata del padre, ma lui ci lesse la serenità che desiderava e il perdono che aspettava da anni.

Restò pochi minuti, poi scese le scale, chiuse la porta alle sue spalle e iniziò il suo nuovo viaggio.

Affrontò l'ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d'altra parte c'era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto la doccia fino a sera. Il viaggio, pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo; le speranze, quelle che riponeva nello sguardo e nell'espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l'angolo del viale.

" Tutto era esattamente come si ricordava. Il viale con i suoi alberi, le villette stile Liberty e quella villa in particolare, dove aveva trascorso gran parte della sua infanzia e adolescenza. Sembrava tutto immutato, eppure non era cosi’. I gradini davanti al portone in realta’ erano piu’ bassi di come li ricordava, ma si sa, da bambini le dimensioni sono diverse. La frescura del portone ancora una volta gli diede conforto dopo la calura esterna. Pure questo era immutato. Salì poco alla volta i gradini, incontrando ad ogni rampa le finestre stile liberty con i loro vetri colorati arancio e verde. Lasciavano filtrare poca luce ma alla loro base avevano un gradino di marmo sul quale tante volte si erano sedute da bambine a chiacchierare prima di rientrare in casa. I ricordi che riaffiorano. Ancora una rampa. La luce ora arrivava piu’ forte dal lucernaio fino a giungere al secondo piano dove si sarebbe trovata davanti a quella porta. Avrebbe aperto Lei? Chi doveva aspettarsi ad attenderla? Non aveva importanza. Sicuramente molte cose erano successe, tutti loro erano cresciuti e invecchiati, e tutte le incomprensioni maturate durante i lunghi anni di lontananza erano ben presenti nella sua mente, ma in particolare modo nel suo cuore. Cosa si sarebbero dette? Era difficile trovare le parole giuste, perche’ il rancore era molto forte, ma doveva farlo per suo padre. Lui avrebbe certamente gradito, perche’ la famiglia e’ quella che conta. Suo padre che non aveva mai capito quanto dolore aveva causato la sua scelta, ma che per l’educazione ricevuta, lei e i suoi fratelli avevano sempre rispettato. Fino ad ora! L’aveva sempre saputo! La morte di suo padre sarebbe stato il momento dei chiarimenti, delle parole non dette. Si prepara, un bel respiro, la porta si apre. Entra."

Affrontò l'ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d'altra parte c'era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto la doccia fino a sera. Il viaggio, pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo; le speranze, quelle che riponeva nello sguardo e nell'espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l'angolo del viale.

Davanti al cancello prese le chiavi, "per l'ultima volta", pensò. Prima di entrare in casa accostò la valigia al muro esterno. Attraversò il corridoio fino alla cucina inondata dal sole. Alda era seduta al tavolo, lo sguardo perso nel vuoto e un mezzo sorriso scolpivano l'espressione che aveva sempre. – Carlo, sei arrivato. Ti stavo aspettando – gli disse. – Scusa, ho fatto tardi – rispose lui. – Non preoccuparti. La mano di Alda si mosse sul tavolo verso di lui, a cercarlo. Ma lui non avvicinò la sua. Lei posò la mano in grembo, lo sguardo fisso nella stessa direzione. – Tutto bene al lavoro? Carlo non riuscì a rispondere. Non subito, almeno. – Faccio un caffè – disse per prendere tempo. Mancavano più di tre ore alla partenza del volo e non aveva premura di distruggere l'espressione serena di sua sorella. Non seguì il consiglio che gli aveva dato il suo collega. "Diglielo subito. Più aspetti e peggio sarà". Lui non conosceva Alda, non sapeva che riusciva a leggere ogni incrinatura della voce, ogni esitazione nei gesti, che non poteva vedere ma che percepiva da ogni singolo rumore, dal più minuscolo fruscio, persino dagli spostamenti d'aria. – Che ti succede? – chiese infatti Alda. Carlo preparò la caffettiera, i rumori che faceva coprivano il silenzio. "Ora glielo dico", pensò. Aveva ripetuto il discorso tante volte: la tanto agognata promozione, il trasferimento a Berlino, l'occasione che arriva una sola volta nella vita. E per lei non doveva preoccuparsi, aveva pensato a tutto, una donna sarebbe venuta tutti i giorni a portarle la spesa e a darle una mano. – Devo dirti una cosa. L'espressione serena di Alda si incrinò. Il sorriso svanì e i suoi occhi bianchi gli sembrarono tristi, anche se era difficile leggere un'emozione in quel vuoto. Le prese la mano. Carlo sentì il suo calore, la pelle che negli anni era diventata ruvida perché una vita era comunque trascorsa, seppure in gran parte passata tra quelle quattro mura. – Dimmi pure. La caffettiera emise un lungo sibilo. Carlo si alzò a spegnere il fuoco e prese le tazzine. Pensò alla sua valigia abbandonata là fuori, alla sua promozione ormai inutile e a Berlino che mai gli sembrò più irraggiungibile. – Cosa volevi dirmi? – domandò Alda. – Niente. Il caffè è pronto.

Affrontò l'ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d'altra parte c'era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto la doccia fino a sera. Il viaggio, pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo; le speranze, quelle che riponeva nello sguardo e nell'espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l'angolo del viale.

Vide la stazione imponente proprio di fronte a lui, attraversò la strada stancamente, trascinando il logoro trolley nero a cui era tanto affezionato. Un suo regalo di tanti Natali fa, di quando ancora erano felici. Gli mancava ancora ogni giorno. Acqua passata.

Fu un problema leggere sul tabellone delle partenze l’orario del suo treno. L’ottico li aveva chiamati occhiali multifocali pensò, già il nome lo aveva fatto incazzare. Roba da vecchio dovevano chiamarla, senza tanti giri di parole.

Era stato fortunato, il posto assegnatogli era rivolto in direzione di marcia. Anni fa non ci avrebbe nemmeno fatto caso ma adesso questi piccoli particolari erano essenziali, come la posizione del bagno più vicino o la luce nelle stanze o la farmacia di turno.

La bionda seduta di fronte a lui non era male. Un bel seno tornito incastonato in un castigato abito rosso. Le lanciava veloci occhiate mentre provava inutilmente a leggere un giornale sportivo fatto solo di parole sfocate. L’editoria è in crisi pensò, tanto valeva scrivere meno e fare lettere più grandi. Anni fa le sarebbe bastato un sorriso e la signora in abito rosso avrebbe cominciato a fare le fusa. Il suo cellulare cominciò a vibrare. Rispose senza guardare lo schermo, non voleva che la bionda lo vedesse strizzare gli occhi, tanto già sapeva già chi era.

- Ho fatto quello che dovevo fare.

- Il notiziario ancora non ha detto nulla.

- Il notiziario? Ma come parli? Sentirai quello che vuoi ascoltare. La bionda lo aveva guardato velocemente, ne era certo.

- Sono il tuo capo portami rispetto. Ti aspetto fra un’ora.

- Ho sbagliato a farlo infatti.

- Non lo hai fatto gratis.

La bionda lo aveva guardato di nuovo. Lui sorrise, lei distolse lo sguardo ma impercettibilmente sorrise.

Sono abbastanza certo che le si siano induriti i capezzoli, si vedono i rigonfiamenti sul vestito rosso o forse sono solo questi cazzo di occhiali che distorcono la realtà. Che spreco pensò.

Solita procedura: arrivare un giorno prima, hotel, documenti, appuntamento. Il fratello del suo capo. Non si somigliavano molto, forse qualcosa negli occhi. Un solo colpo ma si era dovuto avvicinare troppo. All’inizio sparava seduto dalla sedia. Da un paio di anni si doveva alzare. Da un paio di mesi doveva avvicinarsi di un passo. Questa volta ne aveva dovuti fare due per prendere la mira mentre il terrore assaliva il suo interlocutore. Adesso il piano B. Prenotare tutto lo scompartimento. Far arrivare il biglietto alla bionda in qualche modo. Un incastro perfetto aveva detto il suo capo. Coglione aveva pensato.

Il treno stava entrando in stazione, si alzò, i capezzoli duri spuntavano invitanti dal vestito rosso. Che spreco pensò. Un solo colpo. Rapido prese il trolley nero che le ricordava lei e scese nella sua stazione.

Devo andare in bagno, è la terza volta stamattina.

Affrontò l'ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d'altra parte c'era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto la doccia fino a sera. Il viaggio, pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo; le speranze, quelle che riponeva nello sguardo e nell'espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l'angolo del viale.

Si trovò incastrata tra palazzi altissimi e qualche lama di luce sulla pavimentazione sconnessa. Mise una mano in tasca cercando di rianimare il cellulare spento.

Non aveva idea di che ore fossero, l'orologio era un'abitudine che non era mai stata sua.

Si asciugò la fronte col dorso della mano, legò i capelli scuri in una coda bassa.

Riprese il manico del trolley e proseguì lungo la discesa.

Sentì il salmastro pungerle le narici seguito poi dall'odore morbido dei forni. Si domandò se fosse già mezzogiorno.

Le avevano detto che per il mare bastava andare sempre in basso ma lei del mare non ne sapeva niente.

Come non sapeva niente di questi luoghi dalle strade strette e schive.

Agosto portava il silenzio nelle città. Le svuotava, anche lì non era rimasto nessuno.

Quel mare non era lì per loro. Era per le navi e per chi non poteva andarsene.

Fece lo slalom tra i puffi di cemento. Si fermò in una piazza con una fontana luminosa per comprare una bottiglietta d'acqua che le venne allungata da una ragazza svogliata.

Quando arrivò al porto il vento le sciolse la coda e lei lo lasciò fare.

Il trolley le sembrò più pesante, come se tutta l'acqua del mondo fosse là nella sua valigia.

Studiò con lo sguardo quel profilo estraneo di una città che si tuffa in uno specchio.

Proseguì su quella lingua di terra che diventava più stretta.

Studiava le panchine con gli occhi che brillavano.

Lui le aveva detto che si sarebbero incontrati lì.

Il vento le faceva lacrimare gli occhi e le cime delle barche a vela sbattevano a ritmo, facendo un rumore metallico l'agitava.

Quando scorse l'ultima panchina si fermò. Aprì la borsa e cercò uno specchietto che non trovò.

Allora si specchiò sulla vetrata del ristorante. Era chiuso, solo un'anziana col cane erano seduti a riposare sulle sedie tenute insieme dai catenacci stretti. La signora le sorrise e lei fece altrettanto.

Quando tornò alla sua immagine si vide vecchia. Si rese conto di essere fuori tempo.

Sistemò i capelli e puntò dritta all'ultima panchina.

Quando mancò qualche metro ebbe l'impulso di scappare ma le sue gambe non la seguirono. Rimasero ferme lì. Sulla panchina c'era una donna dai capelli scuri come i suoi.

Nella mano teneva una sigarette che lasciava fumare al vento.

«Lui non c'è» disse e buttò la sigaretta «Non se la sentiva di lasciarci»

Affrontò l'ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d'altra parte c'era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto la doccia fino a sera. Il viaggio, pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo; le speranze, quelle che riponeva nello sguardo e nell'espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l'angolo del viale.

Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio, pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti e scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo; le speranze, quelle che riponeva nello sguardo e nell'espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale. Tutto era cambiato. La bella villetta di campagna che aveva accompagnato la sua infanzia non c’era più. La grande casa delle bambole, come la chiamava sempre la sua sorellina Alice era sparita con lei. Aveva lasciato il posto ad un vecchio rudere che il tempo e l’ultimo terremoto avevano ridotto a un cumulo di macerie. Che desolazione. Sentì un brivido percorrergli tutto il corpo. Una morsa comprimergli il cuore che per un attimo si fermò. Non riusciva a respirare. Non si rendeva conto se per la salita o per il panorama agghiacciante che gli si stagliava davanti. La grande quercia che aveva sempre protetto la casa dal sole era ora riversa su se stessa, piangente. I suoi grandi rami che mai Tom avrebbe pensato potessero piegarsi, giacevano inermi sul terreno. Gli stessi rami che nelle lunghe giornate ventose invernali gli sussurravano storie fantastiche. Anche il bosco, seppur lontano, non era più lo stesso. Frastornato ed attonito per tutto questo Tom non si rese conto di un buco nel terreno. Inciampò cadendo rovinosamente a terra. Un dolore lancinante gli trapassò il polso sinistro. Non poteva muoverlo. Non poteva muoversi. Improvvisamente il cellulare squillò. Poteva chiedere aiuto. Aprì gli occhi. A rilento allungò la mano destra e prese il cellulare dal comodino. Spense la sveglia. Un’altra brutta nottata da quando, una settimana prima, aveva ricevuto la missiva. E come al solito rigirandosi nel letto il suo braccio era finito sotto al corpo procurandogli dolore e intorpidimento. Prese la lettera. La rilesse per l’ennesima volta. Si, doveva tornare al paese.

Affrontò l'ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d'altra parte c'era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto la doccia fino a sera. Il viaggio, pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo; le speranze, quelle che riponeva nello sguardo e nell'espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l'angolo del viale.

Avanzava sghembo, una rotella si stava allentando. S’accorse che il caldo era soprattutto dentro di lui più che nell’aria. L’interno del carrozzino gli restituì il visino addormentato della sua piccola. Meglio così, pensò, si sveglierà al momento opportuno.

Entrò dall’ingresso laterale, in casa sembrava non esserci nessuno.

Nell’ampio salone, l’imbrunire filtrava a malapena tra le persiane. Raggiunse la poltrona a lato del divano, il respiro sospeso. Si fermò perplesso. Eva sembrava dormire, raggomitolata come un gatto. La sfiorò con la mano, per vederla afflosciarsi come un sacco vuoto. La scosse, tremando, ma lei non reagì. Le misurò il polso, i battiti erano lenti, ma erano.

In pochi istanti realizzò: salì in camera da letto, aprì il doppiofondo del comò, estrasse la rivoltella e si precipitò giù per le scale, giusto in tempo per scorgere sul viale i due uomini a bordo di un’auto. Per la seconda volta nella stessa dannata giornata doveva uccidere. Per non soccombere.

Dalla finestra socchiusa li vide scendere dal veicolo, posizionarsi ai lati della porta d’ingresso, ignari d’essere sotto tiro. Sparò con tutta la rabbia che aveva in corpo, quelli risposero al fuoco. Colpì uno dei due. L’altro scattò verso il retro della casa e si barricò nel garage. Fulmineo, Walter uscì, montò in macchina e, innescata la retromarcia, sfondò la saracinesca a forte velocità.

Sbatté col lato posteriore contro il muro interno, il contraccolpo fu tremendo. Il buio l’avvolgeva, gli restavano due soli colpi in canna. L’uomo riuscì a guadagnare l’uscita, voleva scappare a piedi, il bastardo. Ma aveva esaurito le munizioni, e doveva essere ferito, arrancava. Si precipitò fuori, mentre l’altro percorreva a fatica il lungo viale. Mirò alle gambe, lo voleva vivo.

– Sei stato un folle, Donati, a fare tutto da solo. Tua moglie se la caverà. Per quanto l’abbiano imbottita di droga, ha una fibra forte. E la bambina è solo stordita dalla lunga prigionia, si riprenderà presto. I due figli di puttana sono vivi e sputeranno tutto sulla loro organizzazione. Sanno bene come funziona nel nostro Paese: se non confessi e collabori, subirai da noi il tuo stesso crimine. Non credo proprio che si faranno vivisezionare per espiantargli organi e tessuti da rivendere al mercato nero, ti pare? – sbuffò l’ispettore.    

Affrontò l'ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d'altra parte c'era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto la doccia fino a sera. Il viaggio, pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo; le speranze, quelle che riponeva nello sguardo e nell'espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l'angolo del viale.

Se solo avesse trovato lei ad aspettarlo, tutto sarebbe tornato al suo posto.

Il sole trasformava in bagliore il ciotolato impervio e le cicale non avrebbero smesso di farsi voce.

Arrivato davanti al portone che ben ricordava, si asciugo’ il sudore dal viso con il dorso della mano.

Era stanco e ansioso di sapere se le sue speranze fossero verita’.

Anna sarebbe stata felice di rivederlo ?

Il suo trolley impolverato aveva percorso molti chilometri, lo fissava,  incredulo che fino a qualche ora prima fosse posato dall’altra parte del mondo.

Decise di sedersi sui gradini del piccolo giardino,  avrebbe aspettato. L’ombra regalava sollievo ma la sua ansia non sembrava placarsi.

Il tempo passava e calata la sera, di Anna non vi era traccia.

Torno’ sui suoi passi, mentre un auto scura gli passo’ accanto.

Non sperava neppure fosse lei, si volto’ a guardare per scrupolo e vide una coppia ridacchiare gioiosa. 

A Lorenzo mancava il coraggio, degluti’ ma il nodo in gola non scese, rimase li’ facendo quasi male. Ando’ via lentamente, come era arrivato.

Quella notte Anna si sveglio’ all’improvviso. Scese al piano di sotto scalza, per non svegliare suo marito.

Quell’uomo alto, seduto nel suo giardino sembrava proprio essere Lorenzo. Era scossa e al contempo curiosa. Apri’ la porta e il buio l’avvolse, solo le luci del paese luccicavano in lontananza.

Non c’era nessuno li’ fuori. Sospirando, socchiuse gli occhi e cerco’ di tornare nel sogno, invano.

Rimase sulla porta qualche istante, poi torno’ a dormire con un sorriso imbarazzato sul volto.

Lorenzo quella mattina si sveglio’ agitato, aveva immaginato di essere stato da Anna.

Sembrava un incubo, l’aveva vista con un altro uomo.  Si sfrego’ gli occhi e scosse la testa.  Chissa’ se lei, ovunque fosse,  lo ricordava ancora.

Fissava il soffitto sdraiato sul letto, mentre la sveglia iniziava a suonare.

Rifletteva sorridendo,  quanto fosse comunque bellissimo, potersi incontrare nei sogni.

Affrontò l'ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d'altra parte c'era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto la doccia fino a sera. Il viaggio, pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo; le speranze, quelle che riponeva nello sguardo e nell'espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l'angolo del viale.

Riconobbe il cancello chiuso. Non era più casa sua da tempo. Da quel terribile sabato in cui tutto era cambiato. Ormai aveva capito: le lacrime non possono riempire i vuoti e nemmeno i sensi di colpa. E una volta fuori dal carcere si chiese: “perché tornare?”. Prima di rivedere il cortile aveva passato giorni vagando nelle piazze e dormendo sulle panchine, senza meta in piena libertà, ma perdonarsi era l'unica speranza per riprendersela davvero. “Devo raccontare la verità”, si disse. Le uniche persone alle quali poter esprimere le emozioni provate e tutte le cose viste, toccate, calpestate, pensate durante le notti in isolamento, erano lì, in quella casa. Riprese in mano quel mazzo di chiavi e aprì la porta serrata da tempo.

La persiana verde cadeva a pezzi. Il viaggio era durato a lungo e Alice non se ne era accorta. Doveva averne viste di cose, nemmeno le ricordava tutte. Per questo aveva preso appunti. Prima ancora di guardarsi attorno, cercò il taccuino. Il suo viaggio era lì dentro. Aprì il trolley vuoto, aveva perso ogni cosa, ma sul fondo nero lo trovò e iniziò a leggere quelle pagine ad alta voce. Di fronte, la sua vita e quello che rimaneva. Sul lato destro del camino la foto di sua nonna che l'aveva cresciuta durante l'infanzia. Al centro suo padre vestito bene, insieme a sua madre in abito bianco, con un sorriso che non le aveva visto mai più.

A sinistra, lui: l'unica persona che aveva amato davvero in tutta la sua vita. Quello che lei aveva trovato ovunque nelle sue fantasie notturne in quella cella buia. Lui aveva una nuova famiglia, ormai uomo, per lei solo un mostro. Li aveva incrociati in città poco prima. Un brivido al solo pensiero. Insieme a lui una signora serena e due bambini mano nella mano. E lei no, lei era sola e distrutta ed aveva pagato le sue colpe. Amore, si dice, o stupidità. Era stato lui a decidere tutto, non lei. Lo raccontava a loro, vittime di quella rabbia, alle foto, uniche immagini dei suoi ricordi. Era scritto su quei fogli insieme a quello che successe dopo.

Lei aveva cercato di evitarlo, quando le urla erano diventate troppo forti aveva preso un coltello per non sentirle più e aveva colpito con rabbia. Era stato lui a pianificare l'orrore: prima aveva ucciso suo padre con un colpo secco alla nuca mentre guardava il tg serale. Poi era andato in cucina e con un grosso coltello aveva lottato con sua madre. A quel punto era arrivata lei e aveva messo fine a tutto. Eppure Alice credeva di amarlo ed era andata in carcere al posto suo: l'uomo che le ha portato via ogni cosa, la sua famiglia, il suo cuore, la sua vita. Quella che fluiva via, cancellando i ricordi belli, le cene, le gite in montagna e anche i sorrisi. Era tornata per quello, il suo nuovo inizio era rimasto su quei volti, quelli impressi in un attimo di felicità. Almeno loro sorridevano ancora. Da lì sarebbe ripartita. Il sole illuminò la poltrona ancora sporca di sangue. Si lasciò scivolare a terra, in silenzio. Il viaggio era finito.

Affrontò l'ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d'altra parte c'era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto la doccia fino a sera. Il viaggio, pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo; le speranze, quelle che riponeva nello sguardo e nell'espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l'angolo del viale.

In fondo, la stazione della sua città: da lì era partita ogni estate per raggiungere le spiagge con i

suoi due figli che ogni anno erano più grandi ed insofferenti delle solite vacanze. Da quella

stazione aveva raggiunto le città in cui si erano trasferiti, per seguire lui, l’uomo della sua vita, il

padre dei suoi figli. Tanti cambiamenti, tante difficoltà per lei, convinta che la famiglia dovesse

rimanere unita superando la paura di spostarsi. L’ avevano spinta anche la curiosità, la voglia di

misurarsi con le nuove situazioni, nuove città da scoprire, nuove persone da incontrare. Era

importante, comunque, non restare chiusi nella provincia d’origine, nelle abitudini sclerotizzate.

E i suoi ragazzi si erano confrontati con ambienti nuovi: avevano incontrato grandi città, avevano

percorso strade sconosciute, avevano sperimentato diffidenze ed accoglienza, sofferto e gioito.

Lei si era sentita sola e rifiutata: aveva vissuto la paura di attraversare la folla di visi sconosciuti ma

anche la soddisfazione di essere stata accettata dai giovani per i quali lavorava, al di là delle

Alla fine, in quegli anni di cambiamenti, aveva visto i figli allontanarsi da lei, più sicuri di se stessi,

come è giusto che sia, scegliendo propri percorsi di autonomia. La figura che aveva guidato questo

itinerario era rimasta accanto a lei nella famiglia, nelle difficoltà e nelle piccole gioie.

Rimasta la coppia originaria, la provincia, la città che si apre sul mare li aveva di nuovo accolti: il

posto nel quale ci si riconosceva e ci si sentiva riconosciuti. I figli lontani con le loro nuove famiglie,

a seguire il loro cammino. Gli affetti si erano moltiplicati, la vita era diventata fitta di viaggi, di

telefonate, di e-mail: per non perdersi e ritrovarsi. Nuove vite che nascono, teneri corpi da

abbracciare ed occhi in cui perdersi con dolcezza.

E lei, stranamente sola, non aveva voluto portare nel suo trolley che poche cose essenziali per il

nuovo lungo viaggio; nella sua mente e nel suo cuore , affollati ed un po' compressi ricordi. Ma va

leggera a bussare a quella porta che sarebbe stata aperta da mani tenere e e da visi curiosi che,

come nelle sera di Natale, aspettavano i piccoli doni che i nonni non dimenticano di portare.

Affrontò l'ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d'altra parte c'era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto la doccia fino a sera. Il viaggio, pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo; le speranze, quelle che riponeva nello sguardo e nell'espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l'angolo del viale.

Alexandr, così si chiamava, era un ingegnere, da tempo residente negli Stati Uniti; conosceva bene quel viale, perché in realtà quel viaggio era un ritorno. Un ritorno a quella che una volta era la sua casa.  Un ritorno atteso per troppi anni. Un ritorno alle origini, al suo villaggio, distrutto dalla guerra civile.

Una guerra nel cuore dell’Europa, una guerra crudele, figlia di un nazionalismo fuori controllo, che aveva messo di fronte, armati l’uno contro l’altro, ragazzi, come allora era Alexandr, che solo qualche anno prima giocavano insieme, dall’ultimo campo di periferia fino alla nazionale, una delle più forti del mondo.

Ma un giorno aveva visto con i suoi occhi l’indicibile: proprio ai lati della salita che si congiunge al viale, giacevano, allineati, decine e decine di corpi di soldati e miliziani della etnia di sua madre, palesemente non morti in battaglia, ma giustiziati con un colpo alla nuca.  E aveva udito, la sera, militari ubriachi urlare inni di guerra nella lingua dell’etnia di suo padre.

Se ne era andato di nascosto, in quella notte maledetta, in quel terribile luglio del 1995, lasciandosi indietro il suo villaggio in fiamme. Allora era poco più che un ragazzo, con i suoi 25 anni e la vita tutta davanti a sé. Conosceva bene la campagna circostante, fitta di boschi; aveva eluso posti di blocco, reticolati, battute notturne coi cani… ma infine era riuscito ad allontanarsi.

Aveva preferito fuggire perché la sua condizione di “mezzosangue” non lo lasciava del tutto tranquillo.

Sapeva di lasciare il padre al sicuro, in quanto appartenente all’etnia  vincente. La mamma, appartenete all’etnia sconfitta, era morta due anni prima per un cancro al seno.

Alexandr aveva adesso 49 anni, l’età in cui si iniziano a tirare le somme della propria vita. Fino ad allora non aveva nemmeno preso in considerazione l’idea di ritornare; ma la vita si incarica di metterci di fronte al nostro destino. Suo padre stava morendo e voleva rivederlo prima di andarsene per sempre.  Ecco cosa lo conduceva su quel viale. Ecco perché non aveva valige, ma solo un trolley che trascinava, stanco, sulla ghiaia.

Affrontò l'ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d'altra parte c'era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto la doccia fino a sera. Il viaggio, pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo; le speranze, quelle che riponeva nello sguardo e nell'espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l'angolo del viale.

Si fermò per un attimo poggiando a terra la carriola, strizzando gli occhi riuscì a scorgere una buca ombreggiata dalla chioma di un albero; alzò il catorcio e si incammino verso il fosso, pensò a quanto fosse difficile trasportare quel coso pesante sul terreno ma l'idea che quella buca avrebbe potuto salvarlo lo stimolò. Giunto a destinazione si piombò a terra, gli pareva avesse dei macigni al posto delle gambe. In realtà era accaduto tutto nel cafè a 70 m da lì. Tirò fuori dalla sua giacca un pacchetto di Winston, aspirò il primo tiro di sigaretta e vedendo il corpo morto all'interno della carriola produsse una risata isterica. Stampò un bacio sulle labbra insanguinate di Lee e assaporò il gusto metallico rilasciato dal sangue.

 Potrei raccontarvi di Lee come la figlia più piccola dei coniugi Bones, come la ragazza più intelligente della scuola, ma no, posso parlarvi di lei come una povera malcapitata con una fissa incontrollabile per il gelato.

Tutto iniziò un giorno di maggio, nel momento in cui il sole raggiunge il punto più alto. Lee era appena uscita dalla chiesetta vicino casa sua, a quell'ora il suo stomaco brontolava. “Salve signora Green, posso avere una coppetta di gelato?" era appena entrata a Sweetvalley, un vecchio cafè del paese. Il locale era piccolo e vecchio ma Lee vi era legata, le pareti gialle erano accoglienti, il profumo di cannella che caratterizzava quel luogo la faceva sentire a casa. “Tesoro! Ti servo subito.” La signora si voltò verso il bancone e gentilmente disse “Joe, una coppetta al pistacchio per la ragazza" Joe era suo nipote, sua figlia Mariè l'aveva partorito 21 anni prima. In quel periodo aiutava sua nonna, ormai troppo stanca per servire coppette di gelato.

Con gesti disinteressati prese dal frigo una vaschetta di gelato e sbuffando riempì  la coppetta fino all’orlo. Posò il  recipiente  nella mani della bionda e guardandola dalla testa ai piedi egli si sentì completamente imbambolato. 

Da quel giorno la pensava costantemente, la sognava e sperava ogni volta di incontrarla. I sogni diventarono però strani, Lee a  volte aveva il collo squarciato, altre pendeva da una corda. Il ragazzo aveva da sempre avuto abitudini grottesche, lui mangiava larve e parlava da solo, quando era  bambino, Mariè aveva trovato nella sua stanza ratti e rane senza capo. Così, la donna decise di portare il piccolo Joe dallo strizzacervelli e gli fu diagnosticato il disturbo ossessivo compulsivo.

Per Lee diventò un incubo, lui la seguiva a tutte le ore, iniziò a molestarla e ad essere violento con lei, fino a quello scontro in cui lei si era ribellata aspramente a lui le aveva piantato un coltello nella giugulare uccidendola. Così che si ritrovava nel piccolo bosco di Monville a seppellire il corpo di Lee. Era disperato, però pensava che la sua coetanea avesse meritato quella fine.

Joe si alzò e buttò il corpo nel fosso, coprendolo col terreno. Fu in quel momento che sentì una voce in lontananza che chiamava il suo nome…

"Anche i girasoli hanno gli occhi"

Affrontò l'ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d'altra parte c'era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto la doccia fino a sera. Il viaggio, pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo; le speranze, quelle che riponeva nello sguardo e nell'espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l'angolo del viale. Hansom lo aspettava dietro alla sua scrivania, pronto per cominciare l'esperimento di ipnosi che lo avrebbe riportato nel passato fino a tornare nel corpo di quando era un giovane medico, deciso a fare carriera a tutti i costi, per rimanerci per sempre e cambiare così il corso sia della medicina che della sua storia personale. E, naturalmente, avrebbe anche evitato quella dannata corsa in auto che lo aveva privato dell'uso delle gambe. Ma mentre il collega gli spiegava come si sarebbe svolto l'esperimento, lui guardava affascinato, senza sapere il perché, il quadro dei girasoli alle sue spalle. Guidato dalla sua voce rassicurante e monotona, entrò nel tunnel che si apriva nella sua mente e visualizzò sé stesso da giovane, il mondo ormai passato che lo circondava, gli abiti non più di moda, le canzoni alla radio, i dialoghi desueti. Ma qualcosa sfuggì al suo controllo, aprì quella porta, entrò nel laboratorio e vide subito il calendario coi girasoli. C'erano tutti e due nel laboratorio quel giorno: il medico ambizioso e tenace ed il giovane ricercatore, da subito un pericoloso rivale. Tutto era stato quasi automatico, e perciò velocissimo: il guanto sterile per non lasciare tracce, il veleno nel bicchiere, l'allontanamento tempestivo. Nessuno lo aveva scoperto. Mai. Ansimò, in preda al panico. Questo non era previsto. Hansom non lo aveva previsto.   Lui non lo aveva previsto. I quadri di girasoli cominciarono a moltiplicarsi e a confondersi tra loro, attorniandolo in una furiosa sarabanda, come in un incubo, mescolando passato e presente senza distinzione, compresa la folle corsa in auto e l'incidente avvenuto pochi minuti dopo l'omicidio. E l'unica via di uscita era quella di ripercorrere al contrario la strada tracciata dalla voce di Hansom per tornare definitivamente al presente il prima possibile. Lo aspettava di nuovo la sedia a rotelle, nello studio. Sconfortato, lo scienziato si abbandonò sulla poltrona e aspettò che riprendesse i sensi. Poi gli disse: 'Non mi sento di farle ripetere la cosa, è troppo pericoloso, dobbiamo prepararci diversamente'. 'Lasciamo stare - ribatté lui. 'Non tutto si può cancellare con un esperimento scientifico'. 'Che intende dire?' gli chiese Hansom incuriosito. 'Che anche i girasoli hanno gli occhi'.

Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

La villa era lì, davanti a lui, più bella di come la ricordasse. Sette lunghi anni lo dividevano dai suoi ricordi. Sette lunghi anni passati in fuga. Non da loro, ma per loro. O almeno così si era raccontato per tutto questo tempo. Come se fosse bastato allontanarsi, sparire, a far sì che tutto quello che era successo svanisse, d'incanto. Voleva proteggerli, se lo era detto ogni giorno, tanto da convincersene profondamente. Col tempo si sarebbero dimenticati di lui, delle sue debolezze, dei suoi fallimenti. Ma intimamente sapeva che non era così, non poteva essere così. Nulla poteva cancellare il passato, eclissarsi non sarebbe servito a resettare la sua vita, la loro vita. Scappare era stata la scelta più facile, più egoista possibile.

Non aveva trovato altro, non aveva voluto farlo. Ma anche migliaia di chilometri, facce nuove, lingue diverse non erano serviti a nulla, anzi, avevano peggiorato il suo stato d'animo, inquinato i suoi ricordi, non avevano modificato di un millimetro il corso delle cose. Convenì che trovarsi lì davanti adesso lo metteva in ansia, lo sottoponeva ad una resa dei conti principalmente con sé stesso, lo obbligava a guardare in faccia la realtà, finalmente, senza poter più posticipare la decisione su cosa fare della propria vita. E aveva bisogno di loro, tanto. Il cancello, come sempre, era aperto. Tirò un lungo, profondissimo respiro. Entrò.

Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

Camminò pensando a tutti i suoi ricordi, le sconfitte, le vittorie, i sogni da realizzare. Anche se ormai il tempo della gioventù era lontano nel suo passato. Inoltre era arrivata la malattia. Non una qualunque. Quella che arriva quando meno te lo aspetti e piano piano inizia ad impossessarsi di tutto, del suo corpo, della sua vita. Ormai la sua vita era cambiata radicalmente, aveva cambiato le sue abitudini e tutti i progetti e gli obiettivi che si era prefissato ormai erano andati in fumo.

Il viaggio, o meglio il lungo viaggio, era quello dall'ospedale alla sua casa per la chemioterapia. Sembrava così lungo e stancante perchè ormai il cancro si era insediato dentro di lui e non andava più via. Si stava mangiando tutte le sue forze e tutte le sue speranze di tornare la persona che era prima. All'improvviso un ricordo pervade la sua mente. La vita insieme alla sua compagna prima della disgrazia, prima che lei lo lasciasse per il suo 'problema'. Lui lo chiamava 'problema' perchè di base quello era. Un problema per la sua vita.

Per colpa sua aveva perso tutto ciò a cui teneva. La donna che amava. Lei era troppo debole per accettare e affrontare con lui questa situazione. E certe volte quando ripensava a tutto ciò, nonostante il forte sentimento che lo legava a lei, si riteneva fortunato ad aver perso una persona così. Mentre camminava incontrò una sua vicina di casa che, come ogni giorno, gli chiese come stesse. Lui si fermò per un momento e iniziò a pensare a come stava realmente. Lui stava bene nonostante il 'problema' che gli impediva di respirare bene. Aveva degli amici che lo volevano bene, aveva delle persone che si interessavano veramente a lui e ringraziava ogni giorno di potersi alzare e vivere la sua vita. Quindi rispose convinto che stava bene e continuò il suo cammino verso casa.

Arrivò a casa, posò il borsone che si portava dietro ogni volta che doveva passare una giornata intera in ospedale, si guardò allo specchio e rimase lì per qualche minuto. Sorrise al suo riflesso fiero della persona che era, che era diventato grazie solo alle sue forze, senza mai l'aiuto di nessuno. Si spostò in bagno e, finalmente, dopo una giornata stressante e stancante come quella che aveva vissuto, si mise sotto la doccia.

Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

Sua madre scrutava la strada dal balcone. Si domandò da quanto fosse lì ad aspettarla. Forse dallo stesso momento in cui l’aveva chiamata. Non aveva avuto la forza di parlarle, solo il pianto aveva attraversato lo spazio che le divideva. «Torna a casa». E lei era tornata. Aveva messo tutta la sua vita in una valigia ed era tornata. Lui non glielo avrebbe impedito. Non più. «Lo sai che ti amo» le aveva sempre detto mentre puliva la sua pistola d’ordinanza, mentre toglieva il caricatore e controllava se c’era ancora un colpo in canna. Poi quella canna gliela premeva sullo stomaco, fino a farle male. «Non posso fare a meno di te» le alitava sugli occhi, sulle labbra, sul collo. Faceva scivolare la canna lungo il suo addome, fino all’inguine e la spingeva tra le sue cosce. Poi la prendeva. Ma non c’era amore, solo rabbia. Una rabbia che lei non riusciva a comprendere. Le aveva tolto le chiavi di casa. «Il mondo là fuori è pericoloso». Non si era ribellata. Neanche quando  aveva cominciato a controllare il suo cellulare. Neanche quando glielo aveva sequestrato. Poteva  usarlo solo in sua presenza. Non si era ribellata quando l’aveva costretta a inginocchiarsi ai suoi piedi e  le aveva puntato le forbici alla gola dopo averle tagliuzzato tutti i suoi vestiti. Un rivolo d’acqua le era scivolato lungo le gambe e aveva formato una piccola pozza sul pavimento. Lui era andato nell’altra stanza a guardare la televisione. Non l’aveva mai picchiata, non ancora. «Cos’è questa brodaglia?» aveva ringhiato e aveva scaraventato il piatto per terra. «Pulisci, stronza!» e quando lei si era piegata per raccogliere i cocci, le aveva dato un calcio. Poi ci aveva provato gusto e l’aveva lasciata sanguinante sul pavimento della cucina.Non si era ribellata neanche quella volta. Aveva solo aspettato. Sino a quella sera. Lui puliva la sua pistola d’ordinanza e aveva tolto l’ultimo colpo in canna. Poi era andato a pisciare. mentre lei fissava il vuoto.   Sul tavolo la pistola e il proiettile avvolto in un panno. Pochi secondi a disposizione. E la sua voglia di farla finita. Quel colpo non era toccato a lei. Immobile lo aveva guardato morire. Poi aveva chiamato la polizia. E sua madre. Che le aveva detto: «Torna a casa».  

Classe IV E della scuola primaria dell'Istituto Comprensivo Castelverde di Roma, con l'insegnante Federica Falzani

Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

Era la prima volta che Elisa si trovava a Londra.  Era lì per riuscire ad inseguire il suo sogno di scrittrice.

“Di talento ne hai tanto, ma se rimani in questo buco di paese, combinerai ben poco” Aveva bofonchiato tra i denti il suo pseudo editore prima di sparire nel nulla.

Eppure il suo romanzo su Natalie Levi era così appassionante, intenso, da sembrare quasi un racconto realistico. Aveva preso ispirazione dalla visita ai campi di concentramento fatta anni prima con la scuola. Era rimasta terribilmente impressionata dalle vicende dei bambini prigionieri ad Auschwitz che, dopo anni di rimuginamenti, il parlare di questa bambina le era sembrato cosa naturale. Le parole uscivano dalla penna come un fiume in piena, come un’onda inarrestabile che ha bisogno di schiantarsi contro gli scogli per poter dimostrare la sua potenza.

Ma cosa le aveva portato questo libro? Niente. Per questo era lì, per dimostrare che Elisa Manni era davvero una scrittrice e non una semplice pennivendola. Una scrittrice con la s maiuscola, e di lì a breve lo avrebbe dimostrato! Doveva solo studiare un piano d’attacco, le mancava giusto un piano, sì ma quale piano?

Mentre era intenta a ponderarlo, svoltò l’angolo e si trovò di fronte ad una libreria. Da bibliofila qual era, attaccò il naso alla vetrina e scorse tra i vari titoli un nome un po' troppo familiare: “Natalie Levi the real history” Gli occhiali le scesero sul naso, complice anche questo caldo anomalo. Gli occhi da miope tentarono di mettere a fuoco ma non ci riuscirono. Senza ripensamenti entrò dentro; con un accento britanbergamasco accennò un saluto ed afferrò il libro.

Caspita era il suo libro! C’era il suo nome in copertina. Al centro troneggiava la foto di una signora elegantissima, di circa 80 anni, un filo di perle al collo, un lievissimo trucco agli occhi. Capelli grigi esattamente come il colore delle perle. Chi era quella signora? Possibile che quell’idiota del suo editore non le avesse detto della pubblicazione in Gran Bretagna?

Mille domande frullavano nella sua testa. Nel bel mezzo di questo vortice le si avvicinò la libraia: con fare cortese le spiegò che quel libro narrava le vicende della famosissima Natalie Levi, membro della camera dei Lord. Se avesse avuto la pazienza di aspettare, di lì a poco la signora Levi sarebbe venuta in libreria.

Elisa stentava a crederci, com’era possibile una cosa del genere? Tutto ciò che era scritto nel libro era frutto d’invenzione, certo basato su fatti realmente accaduti, ma pura invenzione.

Toc toc toc toc, delle scarpe con tacco si avvicinavano a lei, alzò lo sguardo ed era proprio la signora Levi. Il cuore di Elisa iniziò a battere all’impazzata, tante erano le domande. Sconvolgente era il fatto di ritrovarsi davanti la protagonista del suo romanzo.

Forse era un sogno, forse era davvero solo un sogno ed Elisa adesso si sarebbe risvegliata nel suo letto tutta sudata, perché questo caldo era davvero anomalo, anche per Zirimbergo. Forse era solo un sogno, o forse no.

Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

Una giornata infernale a dir poco emozionante. 35 gradi a swish land  e ne erano ancora di più per il piccolo Philip. Ma prima bisogna tornare a 4 mesi prima. Philip era un piccolo ragazzo dei monti di country city.Viveva in una famiglia normalissima, con una salario normalissimo, ambizioni più che nella norma e rapporto genuino come nelle solite soap opere americane. Philip odiava questo, era stanco di questa FOTTUTISSIMA normalità, che chiamava "Graynbow " . Graynbow con il passare dei giorni sembrava contagiare tutta la valle, come una vera e propria epidemia, sempre più persone incominciarono a vivere la propria vita in modo  monotono, senza avere passioni, e accontentandosi del "sopravvivere". Philip era l unico immune e il suo obbiettivo era combattere questa epidemia ormai affermatasi. Rimase 3 mesi Nell immenso caos mentale studiando e acquistando multeplici libri basati sulla filosofia e psicologia dei secoli precedenti, tutto questo inutilmente. Era il 27 agosto, Philip era a casa dei nonni paterni e come ogni domenica mattina insieme al nonno George discuteva delle vicende accadute nei giorni precedenti. Improssimamente la televisione, vecchia e impolverata si accese iniziando a trasmettere il telegiornale di swish land. I due si guardarono e iniziarono ad interessarsi allo strano servizio che riguardava una gara, tra i monti di swish land, a cui avrebbe potuto participare chiunque. Dato che la gara avrebbe fatto parte Della diretta più grande mai vista in quella piccola valle, philip capì che quella poteva essere l occasione per sfoggiare l antidoto per sconfiggere il Graynbow. Arrivato il grande giorno tutti si posizionarono sul traguardo, ogni cittadino con un banalissimo modellino che utilizzava le leggi più semplici e scontate Dell aerodinamica,mentre philip decise di sfoggiare il suo super carrello arrugginito decorato con saette e lampi. Dopo numerosi giri philip ottenne numerosi complimenti da parte dei vari telecronisti. A causa dal caldo moltissime persone avevano mollato già ai primi giri. Philip rimase stupito dal povero ragazzo dietro di lui che nonostante gli sforzi stava deludendo suo padre che continuava a gridare come un coach di una squadra di rugby. Arrivò l ultimo giro; era vicino il termine dei numerosi sforzi.Arrivó l ultima curva un finale al cardiopalma ma il povero ragazzo dietro philip cadde dal suo modellino. A quel punto philip decise di combattere il Graynbow avendo un comportamento "Anormale" ,tornó indietro, aiutó il ragazzo e ne taglió il traguardo assieme. La diretta arrivò ad essere osservata dall intera nazione e con un piccolissimo gesto oltre ad aiutare il ragazzo  col padre, philip riuscì nel suo intento. Il Graynbow fu sconfitto. Da quel giorno ogni cittadino imparó una lezione, smise di vivere la vita come in precedenza, iniziando a coltivare innumerevoli passioni e nuove fantastiche ambizioni.

Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

Da quando era scesa dalla scaletta dell’aereo aveva dovuto subire la consueta serie interminabile di domande, controlli, checkpoint, che come un macigno la schiacciavano ben oltre la sua permanenza. Succedeva sempre. La rabbia per l’assurdità di quella situazione e per tutte le bugie che era costretta a dire e ad ascoltare si fondevano, dentro di lei, a quel senso di colpa latente, provocandole un’angoscia così intensa, quasi intollerabile.

I suoi pensieri furono spazzati via da una nuvola di parole che, per lo più incomprensibili, le corsero incontro trasformandosi in sorrisi, donne, uomini, mani, braccia. La avvolsero e la accolsero con un tale calore da far svanire in un secondo la stanchezza accumulata, e forse anche l’angoscia. L’emozione ora avrebbe potuto scoppiarle il cuore.

Non sarebbe mai riuscita a capacitarsi di come quelle persone potessero conservare e condividere tutto quell’entusiasmo, tutta quella speranza, tutta quella certezza di futuro. Sottoposte per l’intera esistenza a un regime di controlli, sospetti e intimidazioni, private dei loro stessi beni e delle risorse collettive minime per la sussistenza, arbitrariamente e quotidianamente intralciate nella loro legittima aspirazione a una vita normale. E d’altra parte capiva bene che senza fiducia e speranza quelle stesse persone non sarebbero potute nascere né sopravvivere, non avrebbero potuto sostenere né rinnovare l’instancabile lotta per la libertà e l’autodeterminazione della Palestina.

Ad un tratto si sentì stringere forte sotto la vita. Guardò giù. Ci volle qualche secondo prima che la testolina bionda, liberandosi dalla pressione dei corpi, potesse trovare lo spazio necessario per ruotare verso l’alto. I loro sguardi si incrociarono e lei ritrovò in quegli occhi scuri la profondità, la vivacità, l’innocenza, la gioia, l’orgoglio, la ribellione, la speranza, la fiducia, la bellezza, il sapore, il profumo, il passato, il presente e il futuro di un popolo.

Tese le braccia, a cui il bambino si aggrappò, quasi arrampicandosi, per poi stringerla forte, affondando la sua testa di capelli biondi in quelli ricci e biondi di lei. Le voci tacquero. Intorno a loro si creò un piccolo spazio, come di rispetto per quella fusione così esclusiva di corpi e di sentimenti. Mondi che si incontravano, di nuovo.

Quell’abbraccio la riportò a quando, pochi mesi prima, lui l’aveva trascinata dentro e fuori le case del villaggio, esponendola come un trofeo. Avevano parlato poco, lui in arabo e lei in italiano, e corso molto, senza lasciarsi la mano e sempre guardandosi negli occhi, ridendo. Prima della sua partenza si era sottratto alla foto che lei voleva fare insieme. Ma le aveva mandato un bacio, quasi di nascosto. “Mohammad is your friend” - le aveva scritto il padre, qualche giorno dopo.

Con la stessa forza e urgenza di poco prima Mohammad sciolse l’abbraccio, la prese per mano e la trascinò via, correndo, sulla strada polverosa, sotto il sole già caldo del mattino.

Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

"Ciao Bruno", disse il vicino, "sei di partenza? - Si vado via per un po’", poi allungò il passo quasi a voler evitare ulteriori domande e salutò con un gesto della mano. L’ aereo per New York partì in perfetto orario da quel momento i pensieri e soprattutto i ricordi si alternavano in un turbinio di emozioni. Prese dalla tasca dello zainetto una lettera, rilesse attentamente ogni parola, la calligrafia irregolare tradiva una mano tremolante, ma le parole erano quelle di una persona molto lucida nonostante le sue ottantotto primavere. Bruno Guarneri è un uomo di mezza età che ha trascorso la propria vita come tanti creandosi una posizione professionale una bella famiglia con due figli adolescenti, tutto apparentemente perfetto .. solo apparentemente. Quando era bambino i suoi genitori litigavano spesso per colpa delle lunghe assenze del padre Arrigo che per motivi di lavoro era costretto a girare il mondo lasciando così alla moglie Marina il compito di accudire e far crescere il loro unico figlio..Bruno per l’appunto. La gelosia verso il proprio marito porto' alle estreme conseguenze con la rottura del matrimonio, ma ciò che mamma Marina desiderava di più era allontanare per sempre l’odiato marito da suo figlio per vendicarsi di lui per i presunti tradimenti che aveva subito.

Fu così che si inventò una storia di abusi sessuali che Arrigo avrebbe perpetrato ai danni del figlio. Come accade a volte in queste situazioni il genitore accusatore convince il bambino che l’altro genitore abbia fatto delle cose brutte e che poi avrebbe dovuto raccontarle una volta interrogato dagli psicologi e dai giudici. Purtroppo la macchina del fango funzionò a tal punto che Arrigo fu costretto, suo malgrado, a scappare sotto falso nome all’estero e dopo varie peripezie giunse negli Stati Uniti d’America dove riusci a mettere su un’impresa insieme ad un cugino che viveva già li e successivamente si creò una nuova famiglia con due figli. Bruno già durante l’adolescenza capì quello che era successo e che suo padre era dovuto scappare nonostante fosse innocente. Il fatto che fosse stato complice anche se inconsapevole lo tormentava con il peggiore dei sensi di colpa.

Dopo qualche tempo incominciò la sua spasmodica ricerca di suo padre. Lui conservava un paio di sue foto di quando era giovane e contattò molte persone su internet. Un giorno con un pizzico di fortuna dopo tante ricerche trovò una donna che altri non era che la figlia del cugino di suo padre la quale gli racconto' un po' di Arrigo e gli diede importanti informazioni su quella che era la sua seconda vita anche se ormai erano diversi anni che non lo vedeva e non lo sentiva. Da li riuscì dopo ulteriori ricerche a trovare un indirizzo che poteva essere quello giusto … e infatti dopo aver mandato una lettera in cui raccontava la sua storia ricevette la risposta che aspettava da una vita, era Arrigo Guarneri. Bruno finalmente poteva riabbracciare suo padre.

Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

Da quanti anni sognava questo momento, da quanto tempo ricostruiva nella sua mente lo scenario di quell’incontro desiderato e aspettato tanto quanto un bambino attende il suo regalo di Natale. Mille domande occupavano la sua mente, mille emozioni vivevano ora nel suo animo. Come fosse un trucco di magia ritornò a quel lontano 2009, quando fu costretto a partire, ad abbandonare la sua terra più di tutto. Sentì per un attimo lo stesso dolore, come quando un fiore viene staccato dalle sue radici e il vento lo perde tra le correnti che tirano. Il mondo per un attimo rallentò il suo ritmo, il tempo dimenticò quasi di scorrere; tutto era ghiacciato in quel ricordo lontano ma che forse tremava come fosse ancora presente. 

Di sobbalzo ritornò alla realtà. Per un attimo aveva dimenticato il mondo che lo circondava e i pensieri in quella mattina uggiosa non lo lasciavano correre via. Gli attendevano circa quattro ore di viaggio e ora il suo sogno iniziava a prendere forma. Scrutava fuori dal finestrino il paesaggio: nulla assomigliava più a prima e si rese conto quanto durante questa lunga permanenza a Milano avesse quasi dimenticato il mondo che oltrepassava il capoluogo lombardo. Adesso non aspettava altro che rivedere il sole di Napoli, risentire quell’immenso calore sulla sua pelle; adesso ogni emozione aveva colore, adesso era pronto a raccogliere i suoi silenzi e metterli da parte. Quel cuore lento stava ricominciando a battere.

Con le cuffiette nelle orecchie e lo sguardo perso all’esterno riascoltava le parole di quella canzone che conosceva a memoria come se fosse una parte del suo corpo: “ come la luce che filtra da questa finestra, come la vita che cambia ma resta la stessa”. Quanto era cambiata la sua vita, quanto era rimasta immutata. Quanta vita era trascorsa mentre lui l’aveva allontanata da sé come fosse un vento sferzante da prendere a morsi.

Eppure era vita. Era la stessa vita che aveva abbracciato con curiosità e pazienza nella sua terra. Ma forse non era questa che aveva allontanato da sé ma le consuetudini, e si chiedeva  se la vita portasse ad avere delle abitudini o se fossero solo le abitudini a fare la vita. 

Il treno era quasi arrivato. Al solo pensiero le lacrime si facevano pesanti, le mani tremavano, il respiro mancava: era davvero pronto a riprendersi la sua vita? Non sapeva, ma appena arrivato a Napoli nulla era più come prima, tutto era profondamente mutato. E se invece ad essere cambiato era solo lui, il suo essere, la sua persona? In un attimo anche le poche certezze che gli erano rimaste scomparvero e adesso intravedeva la menzogna anche nella sua ombra. Non era ancora pronto ad affrontare la delusione di vedere la sua terra mutata. 

In quel momento capì. Riuscì a dare una risposta a quella domanda che si poneva spesso: la vita era fatta di abitudini; ed ora quelle sue abitudini non sapevano più vivere in quella casa dal volto trasformato ai suoi occhi. Così ritornò al suo posto e aspettò che il treno ripartisse.

Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

Finalmente era tornato a casa, quella casa che aveva dovuto abbandonare anni prima. Ora però era tornato, l’avrebbe rivista pensò, mentre le sue mani spingevano le ruote della sedia a rotelle. I polpastrelli ormai consumati passavano a intervalli regolari dai braccioli ai raggi arrugginiti di quella prigione a cui era stato costretto.

Marì… al suo pensiero il cuore mancò un battito. Si erano conosciuti quando erano giovani. Lei viveva nel suo stesso quartiere, dove erano cresciuti insieme, a poche case di distanza. Poi, una sera, l’aveva vista alla festa in piazza: avvolta in un lungo abito a fiori, i capelli biondi legati in una treccia. Stava con delle amiche, ridevano. Quella sera, quando lei gli sorrise, lui capì che non l’avrebbe mai più guardata con gli stessi occhi.

Era bella Marì e quando rideva il mondo sembrava fermarsi per guardarla. Si sarebbero dovuti sposare in primavera, ma alla fine la guerra era arrivata pure là. Non c’erano più state feste e la gente aveva preso a camminare svelta. Gli aerei sorvolavano il paesino producendo un rumore spaventoso e terribile e facendo tremare i vetri.

Poi vennero a chiamarlo: tutti gli uomini giovani dovettero partire per il fronte. Se lo ricordava bene quell’ultimo giorno, il giorno in cui dovette dirle addio, o meglio arrivederci gli disse lei. Se ne stava sulla soglia della porta, con gli occhi pieni di lacrime, ma sulla bocca quello stupendo sorriso che era per lui, per la speranza di una vita insieme, un regalo solo per lui. E quell’immagine se l’era portata tra il fango delle trincee, nel gelo di un paese straniero, sotto le bombe e sotto la pioggia.

Ce l’aveva davanti agli occhi anche quando il perfido congegno aveva colpito. Un meccanismo efficiente, progettato per scattare al minimo movimento. Se lo ricordava, l’istante preciso in cui quel click gli aveva portato via le gambe nel fragore dell’esplosione. Ma la speranza no, quella non era riuscito a strappargliela e lui era sopravvissuto. Lui era forte e ora ce l’aveva fatta a tornare. L’avrebbe rivista.

Il paesino era cambiato, non era come se lo ricordava. I bombardamenti avevano trasformato il volto degli edifici che ora si mostravano anneriti e in rovina. Si fermò a prendere dei fiori con i pochi spiccioli che aveva. Non poteva presentarsi a mani vuote. Marì era bella e meritava il meglio pensò, mentre si avviava con il mazzo di fiori in grembo. Il fioraio lo osservò con uno sguardo triste spingere la sedia su per la salita.

Appena fuori dal paesino, i suoi vecchi occhi stanchi presero a cercarla lenti. All’improvviso la videro. Sentì qualcosa di bellissimo inondargli il petto. Lei era là, proprio come se la ricordava, con il vestito a fiori della festa, con il suo sorriso, quel sorriso che gli aveva regalato il giorno della sua partenza. Sembrava non fosse passato un istante. “Eccomi qua, Marì, sono tornato.” Il vecchio fece scorrere la sedia a rotelle vicino alla lapide e posò una mano sulla pietra fredda. “Finalmente sono a casa”.

Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

Nonostante sapesse che c’era ancora molta strada da compiere, non si fermava, per l’amore che provava

Si, è vero, non era solo, con lui c’era sua figlia Anna, ma non era di grande compagnia dato che era qualche

ora che dormiva nella sua culla; anche se fosse stata sveglia non sarebbe stata molto di presenza, aveva poco

più di un anno e non sapeva dire neanche una parola.

Stava calando la sera, avrebbe passato un’altra notte a camminare, camminare, camminare; però era convinto

che non mancasse tanto al suo villaggio; e anche se fossero mancati migliaia di chilometri, non si sarebbe

fermato, sua moglie e suo figlio li aspettavano a casa, inoltre Anna aveva bisogno di loro.

Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

Si domandò ancora una volta perché si era ostinata a mettere quella longuette di jeans che la obbligava a camminare come una geisha. Ai piedi una paio di Converse bianche, Federica le aveva consigliato di non ostentare troppa femminilità con i sandali gioiello che portava abitualmente. Era nervosa.

Il trolley rumoreggiava sui sampietrini del centro storico le cui fessure, una volta tanto, non erano trappole per le sue scarpe.

Passò davanti al panificio di zia Rosa, chissà se c’era sempre lei nel negozio o se aveva cambiato gestione. Non se la sentì di entrare a verificarlo, benché fosse certa che la zia non l’avrebbe riconosciuta.

Non tornava a casa da almeno quattro anni, affrontare il viaggio era una spesa troppo onerosa e nei fine settimana dava una mano a Renato, il suo amico parrucchiere. Le piaceva chiacchierare con le signore mentre insaponava le loro teste.

La verità era che aveva lasciato l’università pur continuando a farsi mantenere dai suoi, aveva bisogno di soldi, per fare quello che voleva ne servivano molti.

La casa dove era nata comparve dietro agli alberi del parco comunale, dove aveva trascorso interi pomeriggi a giocare a pallone con suo fratello, pur non avendo alcuna passione per il calcio.

Passò davanti al cancello d’ingresso, ma decise di non attraversare il parco: aveva bisogno di ancora un po’ di tempo, fiancheggiò lentamente il giardino lungo la recinzione.

Per concludere il suo viaggio e poter vivere appieno la nuova identità doveva fare un'ultima cosa: parlare ai suoi genitori. Qualunque fosse stata la loro reazione doveva dirglielo, solo così si sarebbe sentita davvero libera.

Si osservò riflessa nel vetro del portone, si piaceva, era alta e formosa, proprio come aveva sempre desiderato. La chioma bruna, infoltita da ciocche di toupet, cascava morbidamente sulla camicetta di lino macchiata di sudore. Questa eccessiva sudorazione era il souvenir della vita precedente.

Risoluta, appoggiò il dito tremante sul citofono.

Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

La casa era sempre lì, gialla e rosa con la sua imponente teoria di finestre e torrette. Da bambino, quando camminava lungo i suoi muri  per andare a scuola, era sempre assalito da una certa paura, ma soprattutto fantasticava sulla vita di chi ci abitava, chissà come passavano il tempo, cosa mangiavano, come giocavano…

Ora gli sembrava un porto sicuro, un riparo dai fantasmi che lo accompagnavano. Come in una discesa all’inferno, era andato sempre più lontano e sempre più a fondo. Ogni passaggio lo faceva scivolare verso un vita più miserabile: il mercantile sgangherato su cui era fuggito tre anni fa, i paesini del Sud America desolati in mezzo alla foresta, le baracche in cui cercava un po' di pace o almeno un po' di riposo dall’ansia bestiale di uomo in fuga per sempre.

E ogni notte gli occhi di lei, prima increduli, poi disperati quando aveva capito che la vita la stava abbandonando mentre il coltello raggiungeva il suo cuore.  

Non si era mai chiesto perché, l’avevo fatto e basta.

Il sudore gli stava colando sulla faccia, non offriva un bello spettacolo di sé, ma sperava che l’avrebbero accolto e tenuto al sicuro dalla sua disperazione, sperava quella notte di poter dormire senza vedere gli occhi di lei.

Suonò il citofono e attese. Il piantone gli domandò cosa volesse: “Sono Francesco Quadri, sono venuto a costituirmi”.

Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

I passi si facevano pesanti, ma non a causa della strada fatta, né del carrello che portava. L’aria sembrava farsi più densa.

Intorno vedeva un luogo familiare ma alieno, come una foto sbiadita, ma i suoi piedi ricordavano quella strada. Il suo corpo era passato molte volte lì, ma per lui erano ricordi appartenenti ad un'altra vita, ricordi di un uomo morto da tempo.

Continuava a camminare, lo scricchiolio del carrello suonava sordo. Vedeva bambini correre sui prati e persone passeggiare al sole, un sole ben più fresco. Un battito di palpebre, e la terrà tornò brulla, il sole cocente che lo schiacciava con il suo calore, come cercasse di piegarlo in ginocchio, come lo obbligasse a cadere a terra, a strisciare.

Vide una figura corrergli incontro, una donna con capelli d’oro, illuminata dalla gentile luce del sole si spostava come volando. Gli correva incontro con un sorriso capace di illuminare la giornata più buia. In quel momento tutta la sua stanchezza si sciolse, tutto il peso del suo cuore fu sollevato, dopo molti anni si sentì felice. Le corse incontro, la prese fra le braccia, ma fra le sue mani c’era solo polvere. Il sole era tornato a soffocarlo, davanti ora si trovavano solo i ciottoli del selciato cotti dal sole.

Si sentiva la testa pesante, gli rimbombava lentamente, lacrime scendevano sul suo volto.

Si alzò con fatica, riprese il suo carrello e riprese il suo cammino. Oramai era vicino.

Ad ogni passo la memoria mandava fitte: la vedeva camminare accanto a lui, vedeva ogni secondo della loro vita passata insieme, una vita che aveva abbandonato.

Si volse verso una casa in cima ad una collina, e si mosse verso di essa.

Nelle sue orecchie rimbombavano le ultime parole, quando c’era ancora speranza, quando si pensava ancora di poter salvare questo mondo, quando ancora vi erano 4 stagioni. Lui credeva di poter salvare questo mondo, voleva salvarlo anche per lei. Lei non voleva abbandonare la sua casa, non credeva che fosse un domani, voleva vivere l’oggi con lui. Così aveva percorso quella strada, in senso contrario, abbandonando l’uomo che era, morendo per la prima volta.

Si trovava sulla soglia di casa, una casa che echeggiava di ricordi, ma suonava vuota.

Non aveva pensato ad altro negli ultimi anni che tornare.

Andò nel giardino sul retro. Solo una pietra mutava il paesaggio. Si inginocchiò accanto ad essa e accarezzò le lettere incise sopra, era tornato.

Scaricò dal cartello un piccolo pacco, che conteneva l’ultima parte della sua vita.

Dentro c’era un cubo cromato di pochi metri, uno schermetto touch lampeggiava. Impostò tutti i codici, partì un conto alla rovescia. Una voce ronzava avvertendo di allontanarsi, lui si sdraiò vicino alla pietra, accarezzandola, mentre lacrime cadevano a terra, bagnando un terreno che non vedeva acqua da anni.

Il conto finì, e vi fu un’esplosione.

Da quelle terre tornarono i fiori, da quel cielo tornò la pioggia, da quelle lacrime nacque la vita.

Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

Era ancora lontano ma già intravedeva le troupe appostate. Erano trascorsi 30 anni dall’ultima volta che aveva percorso quella strada, ma in senso inverso, co­me sempre aveva fatto in tutta la sua vita. Aveva iniziato alle scuole superiori. Tutti si iscrive­vano al liceo, lui all’istituto tecnic­o. Poi tutti avevano la moto e, neanche a dirlo, lui andava in bicicletta, per poi comprare la vespa quando gli altri erano passati all’au­to. Lo stesso con le ragazze, a lui piac­evano i maschi. Proprio a causa di questa innata tendenza ad andare contro, si era ribellato ad un gruppo di omofobi che deridevano lui e Cosimo, il suo grande amore. La puni­zione era stata trem­enda. Il branco li aveva picchiati fino a causare la morte di Cosim­o. Era il 1989 e distru­tto dal dolore si era trasferito a Berl­ino est quando tutti vi fuggivano. Lì aveva investito tutti i suoi averi. Era partito portando con se quello che in Germania era cono­sciuto come il segre­to del successo dell­’italiano più famoso della nazione. Lui lo chiama il suo te­soro. Nessuno sapeva cosa fosse ed era diventa­to argomento di qua­si tutte le sue appa­rizioni in tv. Era stata addirittura org­anizzata un’asta te­levisiva internazion­ale durante la quale qualcuno aveva offe­rto una fortuna per accaparrarselo. Ma anche in quella occa­sione, lui aveva sp­iazzato tutti dicendo che lo avrebbe ric­onsegnato al legitti­mo proprietario, in Italia. E così era stato. Il luogo non era lon­tano da dove il suo amore era tragicamen­te finito. Sotto il sole di un caldo pomeriggio d’A­gosto, bussò. Era l’ingresso di un ristorante e, poco dopo, ne uscì un gi­ovane cuoco, ignaro di tutto. Lui lo tranquillizzò. Davanti a milioni di telespettatori aprì il trolley e tirò fuori il prezioso co­ntenuto, ovvero un libro di antiche rice­tte popolari scritto e illustrato dalla nonna di Cosimo. Spiegò al ragazzo co­me, prima della trag­edia e approfittando della caduta del muro, lui e Cosimo av­essero deciso di apr­ire a Berlino est un ristorante italiano in cui proporre i piatti della loro in­fanzia. Era riuscito a reali­zzare il sogno ed il suo era diventato uno dei ristoranti più famosi di tutta la Germania, grazie anche al mistero nato attorno al ricetta­rio. Era giunto il momento di cedere il testi­mone ed il giovane cuoco, nipote dell’a­mato Cosimo, era il legittimo erede.

Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

Si fermò e aspettò il cagnolino che si trascinava con un carrellino per cani disabili, era l’ultimo tratto di salita.  Erano entrambi stanchi ma contenti di essere arrivati.

Il viaggio era stato lungo e non sempre facile, ma il ricordo dei paesaggi surreali che avevano visto sarebbe stato sicuramente indelebile nella loro testa.

Il 19 Novembre 2040 fu devastante per la popolazione del Pianeta Terra, tutto ciò che era stato negato, rinviato, deriso, temuto, si abbattè con tale forza e violenza che solo il 20% degli abitanti terrestri, animali e uomini, rimase in vita.

Cominciò tutto con una serie di terremoti seguiti da tzunami, onde alte come grattacieli si abbatterono sulle coste spazzando via porti e città.

Pochi mesi prima in Groelandia non rimaneva più traccia di ghiaccio, solo un’enorme distesa di mare.

Ma nemmeno questo aveva fatto ragionare gli umani: continuavano a negare, dicevano che tutto era sotto controllo.

L’aria ormai era irrespirabile da mesi, le foreste erano sparite sotto il fuoco appiccato volutamente dall’uomo.

Gli unici animali non domestici esistenti, erano quelli negli allevamenti intensivi, ammassati e tenuti in condizioni inumane, uccisi a milioni ogni giorno per riempire supermercati dove gente ormai malata andava ad acquistare tutto ciò che la faceva ammalare sempre di più.

Nessun cambiamento nelle menti di chi governava la Terra e nessun cambiamento nelle persone comuni non più capaci di pensare.

Pochi erano rimasti “svegli” e vigili, pochi avevano resistito alla massificazione sociale e quei pochi prima del disastro, avevano cercato di comunicare e darsi un punto di ritrovo per ricominciare tutto d’accapo, chissà se ci sarebbero riusciti. Nessuno sapeva chi di loro era rimasto in vita, si sarebbero incontrati oggi nel luogo prescelto.

Lei e il cane camminavano da mesi, viaggiatori inseparabili ormai, si erano aiutati a vicenda durante il viaggio ed erano rimasti insieme, soli al mondo o quasi, cercando di sopravvivere per arrivare alla meta di quel lungo cammino ed oggi erano lì, speranzosi di trovare una nuova vita, una soluzione forse, a quella tragedia accaduta poco tempo fa. Girando il vicolo videro la botola, con una croce bianca dipinta sopra: era la fine del viaggio. Ormai era notte, in cielo nemmeno una stella in quanto oscurato da fumo nero, intorno solo rovine e macerie e acqua. Sapevano che quel rifugio sotterraneo era l'inizio di una nuova vita /non - vita.

Avevano vissuto in uno dei pianeti più belli e perfetti che il sistema solare avesse posseduto. La natura e i suoi animali, in un equilibrio perfetto avevano provato a convivere con gli esseri umani ma niente, neppure la bellezza di fronte alla quale molte persone si commuovevano, nemmeno quello, aveva fatto vedere oltre al dio denaro. E adesso non esisteva più nulla. Ora avrebbe incontrato, forse, alcuni dei pochi sopravvissuti, ora li avrebbe guardati negli occhi.

Di fronte a quell’entrata un solo pensiero: la rinascita o il nulla…

Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

Il suo viso in tenera aspettativa si ravvivò al suono delicato e penetrante di mille foglioline di alti pioppi che vibrando al sole, coronavano il viale fino alla porta di pietra; ebbe un deja-vu di lui bambino abbracciante un esile tronco con implorante richiesta di protezione materna.

Era sudato con i piedi freddi; abbassò la testa come ad ubbidire ad un comando che imponeva ordine e disciplina, per controllare il suo disordine emotivo; aveva bisogno di chiarezza, era lì per questo.

Un altro sospiro; chiuse gli occhi, mentre l’aria era diventata acre, senza vento e silenziosa; percepiva solo il pulsare del cuore, ma il carrello che stringeva con le mani, sembrava alleggerirsi metaforicamente da pesi superflui; mise ordine alle cose rimaste; si accorse che tutto ciò che era inconsistente si era sbriciolato come polvere al vento.

Meravigliato e fiducioso, riprese il cammino; i passi si susseguirono sulla ghiaia quasi a saltelli come una sorta di moto consolatorio.

La porta di pietra incastonata fra due fossati era pavimentata da neri ciottoli interrati lateralmente; le mura sembravano rosee braccia aperte di una madre severa, mentre si stava avvicinando al suo paese natale accompagnato ritmicamente dal rumore metallico delle rotelle che incespicavano sui ciottoli.

La porta era un enorme superficie sulla quale erano incisi epigrammi che“narravano” di fatti violenti, di episodi tragici, come una sorta di rotocalco di pietra che documentava la storia di quel luogo. Lui si mise le mani sul viso ricordando quando attraversava di corsa la piazza per non vedere ed esser visto; ora aveva capito che le ombre che segnavano il suo cammino erano un repertorio di ricordi che avrebbero alimentato la strada del suo ritorno, rimembranza di ciò che era venuto a cercare.

Volle addentrarsi entro le mura alla ricerca di quella bambina col vestito azzurro con stelline sulle maniche, oppure il bambino che portava sempre con se una biscia sotto la camicia, le feste del bar Diana e le danze sulla strada, Pietro con i suoi grandi cappelli di paglia e i quadri sotto braccio. Chiuse gli occhi e pianse.

Nel suo bagaglio non c’era amore; i passi si fecero frettolosi, urlò ferito da tale constatazione.

Era entrato sperando che forse avrebbe trovato qualcuno ad aspettarlo. Stanco si mise la mano al petto come per condividere il suo dolore interiore col corpo; una leggera nebbia ovattava le strade deserte; incontrò solo una donna e un vecchio in tabarro.

Aveva camminato tanto col suo carrello che spingeva a fatica; esausto si sedette davanti alla casa di via Achille, dove era nato; alla nebbia si univa ora anche la pioggia e il suo pianto diventò straziante, tanto era il suo dolore; attorno a lui la pioggia formava isole d’acqua. Alzò la testa, si protese in avanti e vide rispecchiarsi nelle pozzanghere un viso che gli sorrideva; il cuore gli salì in gola, aveva trovato chi cercava! Dopo un lungo cammino era riuscito a ritrovar sé stesso.

Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

Gli bastarono pochi minuti per arrivare. Suonò il campanello con il bastone; in giro, in quel torrido pomeriggio d’agosto, non c’era nessuno.

Lucia gli venne incontro percorrendo il vialetto  del giardino. Il vestito leggero che le stringeva i fianchi terminando ben sopra le ginocchia, esaltava le sue forme. Aprì il cancello, si chinò su di lui e, nascosta dal separè creato dai suoi lunghi capelli, gli diede un bacio che lo lasciò senza fiato. Poi spinse la carrozzina fino alla porta di casa, dove riuscì a farla entrare aiutata dalle poderose bracciate dell’uomo.

Il salotto era come lo ricordava: tutto era come l’aveva lasciato.

Lucia lo sistemò vicino al tavolino all’angolo tra i due divani. «Vado in cucina a preparare il caffè» disse, come se quei due anni di assenza e silenzi non fossero mai trascorsi. «Fai in fretta, abbiamo un sacco di cose da dirci...». «Lo so» rispose lei «ti devo delle spiegazioni». I minuti che lo separavano dal gorgoglio della moka sembrarono interminabili. Nella mente di Marco si affacciavano un sacco di dubbi. «Perché si è fatta viva solo ora, quando ormai pensavo di averla persa per sempre? Perché non dopo l’incidente e nemmeno durante il lunghissimo periodo riabilitazione? Perché tanta dolcezza adesso? E se...». Lucia comparve con un piccolo vassoio, lo posò sul tavolino e si sedette sul divano. «Il tuo è il più lungo, come al solito.» Bevvero in silenzio.

«Devo dirti di Agata» attacco Lucia. Marco si fece scuro in viso. «Si è fatta viva? È tornata?» «La prima volta è stato due anni fa, una settimana prima del tuo incidente» gli rispose calma. «Mi ha telefonato da Enfield, un sobborgo alla periferia di Londra. Scappò il giorno del suo diciottesimo compleanno, ricordi?» Marco si sistemò sulla carrozzina per dissimulare la tensione. «Mi ha raccontato di te, delle tue porcherie, di come avevi iniziato a molestarla quando era ancora una bambina, di come hai preteso di renderla donna poco dopo i sedici anni, di come l’hai costretta ad abortire, dei ricatti...» Ormai Lucia era un fiume in piena che faceva paura. «Volevo punirti per il male che hai fatto a mia figlia, ti avevo condannato a morte!»

«Ma cosa dici?» protestò Marco, con la bocca impastata. «Stavo pensando a come ammazzarti. Poi una mattina hai preso la macchina e per fare lo spaccone hai dato gas come un forsennato. Arrivato alla curva in fondo al viale hai premuto il freno, ma il pedale è andato a vuoto e sei volato giù dalla scarpata. Sembravi spacciato, ma invece eccoti qua». Marco tentò disperatamente di afferrarla ma si sentiva le braccia di pezza. «È inutile che ti agiti, non vedi che non riesci neanche più a parlare? Tra poco ti scoppierà il cuore.» Lo sfidò beffarda a due centimetri dalla faccia «Nel tuo caffè ho messo trenta gocce di digitalina, un veleno che non lascia traccia provocando prima la paralisi e poi l’infarto.» La guardò immobile un attimo prima di morire, negli occhi di Lucia l’odio aveva finalmente lasciato posto alle lacrime.

Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

Erano anni che non partecipava più al gruppo. Oramai da tempo aveva rinunciato a chiamarlo con il nome ufficiale, Gruppo di Auto Mutuo Aiuto per…. ma infondo non importava, non aveva mai importato. Dal giorno in cui la “Bestia”, come aveva imparato a chiamarla, era entrata nella sua vita Lui stava cercando qualcosa. Qualcosa che lo aiutasse a riprendersi la vita di tutti i giorni, che potesse aiutarlo a guardarsi allo specchio al mattino, magari che gli restituisse l’affetto dei suoi figli. L’Amore di Giulia, quello no, oramai era morto per sempre. Poteva essere quel gruppo? Per circa un anno lo aveva frequentato, sembrava che avesse funzionato, poi arrivò l’inverno e con sé porto la neve. Quella neve che ovatta i rumori, in lui aveva ovattato i sentimenti, il desiderio, la voglia di vivere. La Bestia sembrava un po’ allontanata ma restava sempre sullo sfondo, costante nella sua vita. Fino all’altra settimana quando il senso di soffocamento parve nuovamente avere il sopravvento. Prese il telefono e ricompose quel numero, mai cancellato dalla rubrica e salvato con il nome di “Antonio idraulico”. Rispose una voce di donna, poche domande e l’appuntamento era preso.

Adesso era lì, di nuovo, sulla soglia della stessa porta, prese un grosso respiro ed entrò. C’erano già altre persone, le sedie disposte a cerchio e nella stanza un silenzio di attesa. Pareva quasi fossero lì per attendere lui. Pochi istanti, un cenno di saluto breve e poi una donna esile che occupava una delle sedie prese la parola. Si chiamava Gloria, era la voce al telefono, aveva sostituito Antonio l’Idraulico come facilitatore del Gruppo. Quante volte, gli anni prima, aveva vissuto questi momenti! Sconosciuti seduti in cerchio e una voce che presentava e spiegava le regole. A turno una voce riempiva la stanza. Lui non riusciva neanche a vedere bene i visi, preferiva guardare a terra e concentrarsi sulle parole, sulle storie.

Paolo, Andrea, Laura, Giovanni e gli altri a turno raccontavano le loro vite. Il loro quotidiano vivere con la “Bestia”. Esistenze riassunte in poche frasi, racconti di settimane, a volte di mesi. Anna era una donna sulla quarantina con un cappotto nero lungo fino ai piedi. Sedeva alla sua destra e non riuscì, non resse all’emozione. Si sciolse in un pianto disperato, quasi urlando tra un singhiozzo e l’altro la sua rabbia e la sua delusione. La Bestia, con lei, aveva vinto una battaglia importante. Calò il gelo. Durò alcuni minuti, interminabili. Altre voci ruppero il silenzio, alcune raccogliendo Anna dall’angolo in cui era caduta, altre sedendosi a fianco a Lei, altre voci misero una mano sulla sua spalla, ascoltando con lei il silenzio.

Ad un tratto nella stanza risuonò anche la sua, di voce. Era ritornato. Silenzi, ancora visi rigati dalle lacrime. Alzò lo sguardo e si concentrò sui volti di quelle voci, li avrebbe certo rivisti tra una settimana. Quel gruppo di intimi sconosciuti, carbonari delle emozioni e della vita, uscì dalla stanza alla spicciolata con brevi saluti senza fare rumore.

Salì in auto. Dopo qualche minuto si sorprese di non avere acceso la radio. Sorrise a sé, il viaggio di ritorno sembrava più corto.

Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

Gli piaceva piangersi addosso ma il rumore di quelle rotelle gli provocò un senso di vergogna. Un infermo spingeva la sedia a fatica, sulla leggera salita, forzando sul brecciame e sulla ghiaia dove fatalmente le ruote si impigliavano. Per un attimo pensò addirittura di essere fortunato, salvo ripiombare immediatamente nella voglia di dare un senso a quel viaggio, di riempire la valigia vuota della sua vita. Quand’era bambino e chiedeva dei suoi genitori, era un alternarsi di frasi fatte e di bugie. “Sono saliti in cielo e ti guardano da lassù”, con tanto di carezza a lenire il dolore. Tra i capelli, le mani delle vecchie zie che lo avevano allevato, sulla fronte i baci delle suore che lo avevano istruito, mentre le sue orecchie captavano mezze frasi: “Quella lo ha inguaiato. Che peccato, due famiglie distrutte”.

Sulle prime, la telefonata dell’avvocato napoletano gli era parsa uno scherzo dell’amico buontempone. “Fabrizio, non fare lo stronzo”. “Le assicuro che non mi chiamo Fabrizio e che sono il curatore dell’eredità giacente di sua madre”. Ora giocava ad immaginare l’avvocato: immaginava un principe del foro avvolto nella toga, aveva trovato un curioso nanerottolo con una circonferenza maggiore dell’altezza, la fronte perlata e la forfora che veniva giù come neve sui monti. Per giunta, martoriava ora l’italiano, ora il latino, spiegandogli che una madre l’aveva sempre avuta e che ora doveva decidere se accettare l’eredità o rinunciare.

Lui se ne fregava dei soldi, li avrebbe barattati per una lettera, un ricordo, una spiegazione. Era immerso nei pensieri quando sentì di nuovo il cigolio delle ruote. “Mi darebbe una mano? Io lavoro all’archivio storico e quel palazzo è pieno di scale. Una spinta sola, supero l’ingresso e mi faccio vedere dal piantone”. Una volta entrato nel maniero vecchio e cadente, per curiosità e per distrarsi infilò una porta dietro l’altra fino a giungere ad un “ufficio sentenze”. D’improvviso gli tornarono in mente le brusche interruzioni dei discorsi che coincidevano col suo ingresso nella stanza o gli abbassamenti repentini del volume delle conversazioni ogni qual volta faceva capolino.

Fu così che cominciò a sfogliare una pandetta, poi un’altra e un’altra ancora, fino a trovare il cognome della misteriosa signora che secondo l’avvocato doveva essere sua madre associato ad una sentenza di corte d’assise per un processo di omicidio. Una signora sulla trentina e un amante minorenne e focoso processati per l’omicidio del marito di lei, ritrovato in un cassonetto dell’immondizia del piccolo paese di provincia. Angoscia, stupore e soddisfazione per aver ritrovato comunque le sue radici si manifestarono con uguale intensità, un cocktail di sentimenti che lo portò istintivamente ad abbracciare l’anonimo usciere sulla sedia a rotelle. “Chisto è pazzo” gli sembrò la parola più dolce che avesse mai udito in vita sua.

Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

Lucia si fermò davanti all'ingresso per ripercorrere quei quattro anni. Tutto era iniziato una mattina di primavera. Suo padre l'aveva chiamata al telefono più volte e la domanda era sempre la stessa: “Che giorno è oggi”? Poi seguirono piccole dimenticanze, strani comportamenti, parole e oggetti cercati e non trovati. Spesso in passato ci aveva scherzato sopra: “Speriamo che non arrivi il tedesco”! E il tedesco era arrivato. Puntuale come solo un vero tedesco sa essere. A Lucia era caduto il mondo addosso quando l'ennesimo test aveva confermato la diagnosi.

Suo padre, quell'ottantenne lucido e preciso, innamorato della vita e dei viaggi, era affetto dal morbo di Alzheimer. Vedovo, una sola figlia, avevano vissuto fin dagli anni dell'adolescenza di Lucia un rapporto di reciproco rispetto, di amore non invadente. Lei non aveva mai ostacolato le storie d'amore del padre e lui come un gabbiano seguiva da lontano la figlia che spiccava il volo. Il loro rapporto era piuttosto asciutto. Mai un abbraccio, i baci riservati solo ai momenti delle partenze. Per Lucia però il padre era una certezza.

Era quello che dopo che lei si era sposata, correva a risolvere i piccoli problemi di casa, accomodava qualsiasi oggetto si fosse rotto, raccontava favole al nipotino mentre tornavano dall'asilo. Era soprattutto il custode di segreti di famiglia mai rivelati. Ecco, l'Alzheimer aveva spazzato tutto. L'uomo imponente si era pian piano consumato, gli occhi scavati guardavano sempre più nel vuoto. “In che stagione siamo...In che anno siamo”? Alle domande del neurologo reagiva come uno scolaretto che non sa le tabelline. E poi portava le mani sugli occhi, scrollando la testa. A casa non faceva che aprire e chiudere cassetti, spostare oggetti in uno stato di agitazione continua che lo tormentava. Poi una notte uscì di casa ed iniziò a vagare per le strade deserte, calzando sempre le stesse scarpe ormai consumate. Cadde, emorragia cerebrale. Ospedale. E ora era arrivato il momento tanto temuto. Lucia spinse la sedia a rotelle fino all'ingresso. Varcò la soglia della struttura, consapevole che lo avrebbe perso per sempre. Ma forse lo aveva già perso da tempo.

Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

Si arrotolò i pantaloni lunghi marroni di tela leggera fino al ginocchio, l’acqua  arrivò alle caviglie e sentì la pelle prendere vita. Quella vita perduta per quattro anni, sei mesi e ventidue giorni dentro al carcere di Marassi. Rinaldo sperava  ci fosse Loredana ad aspettarlo fuori questa mattina. Le scrisse  ogni giorno, ma lei non rispose mai. Rinaldo lavorava come pescatore, il suo stipendio finiva già a metà mese. “Puoi guadagnare tanti soldi, lo fai per tre mesi e paghi i debiti” gli disse un suo amico “e poi smetti”. Smise di pescare e iniziò a vendere cocaina.

Portò Loredana in Messico per venti giorni, la loro  prima vacanza dopo cinque anni di vita insieme. Le comprò un Cartier, la borsa Louis Vuitton , acquistò un appartamento vista mare  ad Arenzano. Loredana si fidava di Rinaldo, non faceva domande. Aveva lasciato il suo lavoro da segretaria nello studio stretto e angusto di un notaio che fumava il sigaro. Era bella Loredana con il sorriso fresco sul viso, il corpo tonico di chi ha il personal trainer che viene a casa ogni giorno per due ore. 

Il suono del citofono ruppe  il silenzio della notte. “Polizia aprite” dissero a Loredana che si precipitò a rispondere. “Sarà successo qualcosa a mio fratello. Beve troppo quando va a ballare e poi si mette alla guida, gliel’ho detto tante volte di tornare a casa in taxi” disse  con voce svelta, mentre le lacrime rigavano il suo bel viso. Gettò le braccia al collo di Rinaldo, cercando le sue per un abbraccio di rassicurazione. Le mani di Rinaldo dal  corpo di Loredana le toglieranno i poliziotti per chiuderle dentro alle manette. Dopo l’interrogatorio, misero Rinaldo in cella. Quando sentì  la porta chiudersi con tre rumorosi giri di chiave, capii che era tutto vero. Un’intera vita spazzata via in quel preciso istante. Non restava più nulla, solo una serie interminabile di giorni per pensare.

“Jacopo non schizzare l’acqua al signore” urlò una ragazza bionda al  figlio che giocava in riva al mare. Rinaldo riconobbe la voce calda di Loredana,  e chiamò il suo nome. 

Lei si girò lentamente, non aveva dimenticato la voce di Rinaldo. Era uscita prima dallo studio stretto e angusto del notaio che fumava il sigaro. Oggi è il compleanno di suo figlio, è passata a prenderlo al Cep di Prà dove vivono insieme alla nonna, per portarlo al mare ad Arenzano. Dalla spiaggia guardò  le finestre chiuse della casa dove era  stata felice con Rinaldo e pensò alle scarpine di lana blu che voleva far trovare sul tavolo a colazione per dirgli che sarebbe diventato papà.

Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

“Cosa accadrà a quest’uomo appena svoltato l’angolo del viale?”, si domandò l’aspirante scrittore. Non ne aveva idea. Il problema era che toccava proprio a lui stabilire cosa sarebbe successo dietro quell’angolo. L’inizio del romanzo non era male, ma adesso bisognava proseguire. Occorreva trovare una storia originale da far vivere al personaggio di fantasia che aveva appena creato. “Cosa far fare, quindi, al protagonista del romanzo, appena svoltato l’angolo?”,  si domandò nuovamente l’aspirante scrittore, continuando a non trovare una risposta soddisfacente. Aveva scritto l’incipit del romanzo di getto, quasi senza riflettere, e adesso era bloccato. Quel maledetto angolo lo stava ossessionando. “Cosa potrebbe  esserci là dietro?”, si chiedeva ancora e ancora l’aspirante scrittore. “Ho trovato”, esclamò all’improvviso. “Come ho fatto a non pensarci prima!”.  Avrebbe raccontato il lungo viaggio intrapreso da un uomo, ormai vecchio e malato, per ritrovare la figlia abbandonata anni prima in un orfanotrofio. Appena svoltato l’angolo, l’uomo l’avrebbe finalmente incontrata dopo tanto tempo. Lei era là dietro ad aspettarlo. L’uomo aveva il cuore in gola per l’emozione. Desiderava solo che lei lo perdonasse. L’uomo avrebbe quindi svoltato l’angolo e… sarebbe successo questo:

“Sospirò, e svoltò l’angolo del viale. Un’incudine piovuto dal cielo gli fracassò la testa, uccidendolo sul colpo ed impedendogli così per sempre di rivedere la figlia”.

“E’ praticamente impossibile, che nella realtà accada una cosa del genere”, riconobbe tra sé l’aspirante scrittore. “Quando mai uno svolta ad un angolo e si ritrova la testa fracassata da un’incudine!”. “Beh, però la mia è un’opera di fantasia”, ragionò ulteriormente, “e non è necessario che corrisponda perfettamente alla realtà. Quello che mi interessa in fondo è far riflettere il lettore, dare una sorta di  significato morale alla mia storia”.

E, nelle intenzioni dell’aspirante scrittore, la morale avrebbe dovuto essere la seguente: non bisogna mai pensare che il tempo a disposizione di ognuno di noi sia infinito, perché il destino può aspettarci dietro ad ogni angolo. Forse un po’ ingenuamente, ma l’aspirante scrittore era assolutamente convinto che il suo romanzo, con una trama così assurda, sarebbe diventato un sicuro best-seller. Per festeggiare in anticipo sulle future vendite del libro, decise di concedersi una birra al pub vicino a casa. Mentre camminava, gli squillò il telefono cellulare. Era suo padre, che insisteva per incontrarlo subito. Era tanto che non si vedevano.

“Oggi non posso proprio”, disse l’aspirante scrittore al padre, “verrò domani”. E concluse la conversazione. Nel frattempo aveva quasi raggiunto il vicolo laterale,  dove si trovava il pub. “Mio padre è ormai anziano”, pensò l’aspirante scrittore, “e non capisce che sono un uomo impegnato. Che pazienza che ci vuole!”.

Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

Con gli occhiali appannati dallo sforzo appena compiuto, Sofia alzò finalmente lo sguardo. Là in fondo, tra gli alberi, si apriva la piazza della Stazione. Mancava ormai poco, rallentò, sarebbe arrivata in perfetto orario. Stava tirandosi dietro quel trolley da almeno mezz'ora:

risalire dal centro storico non era stata proprio una passeggiata. I vicoli, quelli stretti e lastricati di pietra antica che si intrecciano verso il porto, a valle della città, erano ormai lontani.

Uscendo dal portone di casa non si era nemmeno girata a salutare il mare. Le sarebbe mancato da morire, più di ogni altra cosa e già adesso, al solo pensiero, una fitta di dolore le stringeva lo stomaco. Aveva ripulito perbene i suoi pochi metriquadri con balcone, ultimo omaggio a quella casa che l'aveva accolta tanti anni prima. Le chiavi, restituite alla proprietaria con l'affitto saldato.

Aveva amato da subito quella città, quando la scelse per gli studi universitari. Così diversa dal suo paese della Bassa Padana di poche anime e troppa nebbia. La luce di Genova l'aveva catturata al punto da non volersene più separare. Gli studi si conclusero, ma lei non fece ritorno a casa.

La famiglia si mise di traverso. Suo padre, un gigante di pietra, figlio della terra da generazioni, tentò invano di imporle il rientro al paese.

La madre, con dolore, si arrese alla distanza della figlia. La rottura era stata definitiva, il tempo aveva fatto il resto.

Si fermò qualche minuto per riprendere fiato: finalmente poteva raccogliere le immagini di quel pezzo di vita e riporle in buon ordine dentro la valigia che si portava appresso. Le sarebbero tornate utili, preziosi ricordi su cui indugiare per non perdersi.

“Sofia? Devi tornare, al più presto”

La voce di sua madre, quella mattina, era arrivata come un tonfo in mezzo al petto, da farle mancare il fiato. Doveva rientrare al paese.

Forse, per sempre. Figlia unica, non avrebbe abbandonato sua madre.

Il treno filò rapido, troppo per riuscire ad attenuare la sua agitazione. L'avrebbe rivisto, dopo tutti quegli anni: non sapeva se ne sarebbe stata capace.

La madre le andò incontro e le indicò la camera. Sofia, col cuore in gola, si affacciò cercandolo nel grande letto matrimoniale.

Lentamente, una piccola figura si voltò,sorridendole.

“Ciao Sofia, ti voglio bene”

Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

Finalmente era tornato a casa, quella casa che aveva dovuto abbandonare anni prima. Ora però era tornato, l’avrebbe rivista pensò, mentre le sue mani spingevano le ruote della sedia a rotelle. I polpastrelli ormai consumati passavano a intervalli regolari dai braccioli ai raggi arrugginiti di quella prigione a cui era stato costretto.

Marì… al suo pensiero il cuore mancò un battito. Si erano conosciuti quando erano giovani. Lei viveva nel suo stesso quartiere, dove erano cresciuti insieme, a poche case di distanza. Poi, una sera, l’aveva vista alla festa in piazza: avvolta in un lungo abito a fiori, i capelli biondi legati in una treccia. Stava con delle amiche, ridevano. Quella sera, quando lei gli sorrise, lui capì che non l’avrebbe mai più guardata con gli stessi occhi.

Era bella Marì e quando rideva il mondo sembrava fermarsi per guardarla. Si sarebbero dovuti sposare in primavera, ma alla fine la guerra era arrivata pure là. Non c’erano più state feste e la gente aveva preso a camminare svelta. Gli aerei sorvolavano il paesino producendo un rumore spaventoso e terribile e facendo tremare i vetri.

Poi vennero a chiamarlo: tutti gli uomini giovani dovettero partire per il fronte. Se lo ricordava bene quell’ultimo giorno, il giorno in cui dovette dirle addio, o meglio arrivederci gli disse lei. Se ne stava sulla soglia della porta, con gli occhi pieni di lacrime, ma sulla bocca quello stupendo sorriso che era per lui, per la speranza di una vita insieme, un regalo solo per lui. E quell’immagine se l’era portata tra il fango delle trincee, nel gelo di un paese straniero, sotto le bombe e sotto la pioggia.

Ce l’aveva davanti agli occhi anche quando il perfido congegno aveva colpito. Un meccanismo efficiente, progettato per scattare al minimo movimento. Se lo ricordava, l’istante preciso in cui quel click gli aveva portato via le gambe nel fragore dell’esplosione. Ma la speranza no, quella non era riuscito a strappargliela e lui era sopravvissuto. Lui era forte e ora ce l’aveva fatta a tornare. L’avrebbe rivista.

Il paesino era cambiato, non era come se lo ricordava. I bombardamenti avevano trasformato il volto degli edifici che ora si mostravano anneriti e in rovina. Si fermò a prendere dei fiori con i pochi spiccioli che aveva. Non poteva presentarsi a mani vuote. Marì era bella e meritava il meglio pensò, mentre si avviava con il mazzo di fiori in grembo. Il fioraio lo osservò con uno sguardo triste spingere la sedia su per la salita.

Appena fuori dal paesino, i suoi vecchi occhi stanchi presero a cercarla lenti. All’improvviso la videro. Sentì qualcosa di bellissimo inondargli il petto. Lei era là, proprio come se la ricordava, con il vestito a fiori della festa, con il suo sorriso, quel sorriso che gli aveva regalato il giorno della sua partenza. Sembrava non fosse passato un istante. “Eccomi qua, Marì, sono tornato.” Il vecchio fece scorrere la sedia a rotelle vicino alla lapide e posò una mano sulla pietra fredda. “Finalmente sono a casa”.

Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

Si trovò circondato da alti muri di pietra. La villetta bianca in fondo al cortile era proprio come quella della foto. Cinque gradini di marmo grigio si arrampicavano fino ad una porta di legno azzurra, due finestre basse ai lati. Dai vasi sui davanzali, diversamente dal ritratto, non spuntavano i fiorellini bianchi. I muri isolavano il cortile dai rumori del borgo.

Si fermò nel mezzo e fissando la stretta porta pensò a quali dovevano essere le prime parole. Non poteva dirgli che gli era mancato. Aveva provato dolore nel distacco, non per l’assenza. Doveva essere per via di quell’istinto naturale che prepara un figlio adulto a fare a meno del padre, o forse per aver sepolto quella sofferenza da qualche parte nell’inconscio, senza volerlo.

Provò ad immaginare quanto potevano essere invecchiati i suoi tratti. Lo sguardo anziano, ne era certo, non avrebbe nascosto quel tremolio degli occhi che manifestava lo sforzo di trattenere la commozione.

“Mi sono laureato, ho una casa tutta mia ed il lavoro, sempre quello”. Cercò di memorizzare le informazioni essenziali. L’elenco gli sarebbe servito anche per dominare l’emozione qualora si fosse presentata.

Abbandonò il trolley ed in fretta salì gli scalini. Alzò il pugno per bussare, ma lo lasciò a mezz’aria distratto dal pensiero improvviso dei diciassette anni di separazione. Non poteva dirgli di non aver patito l’assenza, lo avrebbe ferito. E ancor più indelicato sarebbe stato se gli avesse confessato che la mancanza l’aveva davvero sperimentata da bambino e da ragazzo quando lui era ancora presente. In quei momenti gli erano mancate le sue parole: quelle per imparare a discernere il bene dal male, quelle per apprendere utili capacità manuali, quelle per corteggiare una donna. Queste omissioni le aveva da tempo perdonate comprendendo che anche il padre ne era stato privato e, dunque, non conosceva l’importanza di una tale trasmissione.

Ad intraprendere il lungo viaggio non era stato mosso dall’affetto. Più guardava il proprio corpo e più ascoltava la propria voce, più si rendeva conto di essere simile a lui. Si ritrovava nel suo modo di affrontare la vita: evitare i conflitti, rispettare il prossimo, non voler essere mai al centro dell’attenzione. La vera motivazione della visita risiedeva nella necessità di guardarsi un’ultima volta come in uno specchio.

Bussò ed attese senza badare ai rivoli di sudore che ormai scendevano anche dalla fronte.

Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

La sua testa era piena di pensieri. Dopo il passaggio, così lo chiamava, poteva ancora guardare avanti? Negli ultimi mesi era stato quasi vietato. Quali sogni, quali progetti erano leciti? Avrebbe trovato qualcuno laddove era diretto? Cosa c’era in cima alla salita? Come ogni uomo prudente, aveva preparato da tempo il suo bagaglio: si ritrovava con un orrendo trolley che produceva rumore, deconcentrandolo. Cosa avrebbe dato per avere il suo zaino da montanaro! Aveva portato solo ciò di cui aveva bisogno, i ricordi, l’infanzia felice nel paesino, abbastanza grande per non sentirsi mai soli, un cinema, due bar, strade con poche macchine. E una sala da ballo: ah quella era importante, lì aveva conosciuto la sua Rita. Fu da subito un per sempre, durato oltre quarant’anni, ma alla fine un soffio. Tanti sacrifici all’inizio, poi due figli, le preoccupazioni, ma anche tanta bella  quotidianità, il lavoro, aggrappato a dieci metri da terra a sistemar cavi del telefono. Aveva sempre scelto gli interventi in mezzo ai boschi o in mezzo alle montagne, a portare con un collega metri di cavo da sostituire o montare con la lunga scala a tracolla dopo lunghe scarpinate. Ed ancora la casa, il mare, le serate con gli amici, pochi ma veri, qualche stravizio a tavola. Infine, la pensione, dopo oltre 40 anni di duro lavoro cominciato quando non era che un ragazzo. I figli cresciuti ed affermati, qualche viaggio, spesso nei soliti luoghi, nel solito periodo, trovando i soliti clienti in quell’alberghetto della Costa Brava, che con il passare degli anni  erano diventati amici. Poi improvvisamente in quel giorno di ottobre la notizia di quel canchero che ti mangia da dentro, la battaglia strenua e senza armi abbastanza affilate per competere. Poi, il passaggio. 

Non è arrabbiato l’uomo. Alza gli occhi non appena il viale diventa una strada stretta e finalmente l’imboccatura del sentiero che al primo sguardo non riconosce. Anche il fastidio fisico del sudore va scomparendo. Sulle spalle sente lo zaino, il suo. Agguanta salde le cinghie e cambia passo, che improvvisamente è quello dei vent’anni sicuro anche sulla neve. Dentro ha tutto ciò di cui ha bisogno per essere ancora lui e non una essenza tra le altre: i ricordi sfregano su quel che resta della sua fisicità, ma non c’è paura. La speranza è un lusso che non può permettersi. Non c’é nessuno ad attenderlo in cima, lo sa. A casa ha lasciato uno zaino uguale a quello che indossa, quello che portava in cima ai pali del telefono e che certamente porterà suo figlio nelle passeggiate in montagna a conquistare una delle vette dei suoi monti. Il paesaggio si sta facendo familiare. Riconosce le rocce su cui un tempo si fermava a riposare. Lo zaino dei ricordi non è un fardello, ma tutto ciò che lo lega alla sua vita. Finalmente rivede il suo mare, il paese, la sua casa. Dalla vetta gli sembra di sentire anche il respiro della vita. ‘Saremo sempre insieme’, urla. Ma non esita. Un ultimo sguardo e poi via verso un’altra cima.

Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

La clinica  si ergeva su tre piani, era imponente e gli fece un po’ paura. Non si sentiva alla sua altezza.

Prese il foglietto dal taschino e lo spiegò nella speranza di leggere ancora una volta quel nome ed assicurarsi che fosse una possibilità reale.

All’ingresso c’era una rampa su cui stavano giocando due bambini. Correvano su e giù come matti, sciatori inesperti di montagna, come lui.

Quando si ritrovò in cima, sulla vetta, si sporse e guardò di sotto. Una distesa bianca immensa, un bagliore accecante che lo costrinse a chiudere gli occhi. Aveva dimenticato gli occhiali da sole.

Fantasie, pensò, smettila di sognare.

Entrando dalla porta a vetri il cuore fece un balzo per oltrepassarla e la neve lo invase come una valanga.

La ragazza seduta dietro la reception gli sorrise forzatamente. Non la biasimò.

“Cerco il Dr. Guglierame, ho un appuntamento con lui alle 10”.

“Prego si accomodi, lo avviso subito del suo arrivo”.

Entrò in sala d’aspetto e si fece spazio sulla seggiovia insieme agli altri sciatori, sicuramente più abili di lui.

Quando la signorina venne a chiamarlo si destò dall’ennesimo sogno e si fece scortare all’ascensore. Salendo i piani sollevò una racchetta in alto per salutare i suoi genitori rimasti a valle. Facce preoccupate. Arrivo subito, gli urlò, veloce come il vento.

“Lo lasci a me, signorina, lui viene con me”. Il dottore si mise alla guida della sedia a rotelle e lo accompagnò personalmente nel suo studio.

“Ci ha ragionato molto bene, Valerio? Lo sa che non si torna indietro?”.

“Lo so dottore, è così che ci si rimette in cammino” disse chiudendo gli occhi e immaginando quell’attimo soltanto, quello che aveva preceduto il lancio. Il vuoto sotto e il velluto bianco e quel momento unico di assoluta libertà in cui aveva volato.

Riaprì gli occhi prima della caduta e guardò speranzoso il dottore. Lo vide annuire e capì che questa volta sarebbe arrivato davvero al fondo della discesa.

Daniela Ghia - La band degli Orsi

Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

Lui, nel passeggino, dormiva. Finalmente erano arrivati. Adesso qualcuno avrebbe dato una risposta alle domande angoscianti che entrano nel cuore e nella testa di una mamma e di un papà ai primi sintomi, e crescono con i primi esami, e diventano devastanti con le prime, incerte, diagnosi. Poi, la decisione di salire sul treno e correre a quell'ospedale del nord, approdo sicuro per le malattie dei bambini. Il passeggino già accantonato in cantina e subito trasformato in fuoriserie per un gioco faticoso: lui rideva, a risalirci sopra dopo tempi di corse già sicure, ma per mamma e papà il cuore pesava come un macigno, per quelle gambe che improvvisamente non rispondevano, e soltanto alla fine del viaggio avrebbero saputo perchè. La partenza, il lavoro lasciato in sospeso, la casa chiusa in fretta e le sorelline affidate ai nonni, con le lacrime di chi non conosce il ritorno. Che viaggio. Viaggio di dolore, di paura, la testa che va indietro ai momenti  che non sapevi che erano belli e li vorresti riacchiappare, e gustarli davvero. E poi la speranza: pensieri che corrono avanti, e vorresti già sapere, e sapere che si rimedia, si guarisce, e che, alla fine, tutto finisce. In mezzo a quei pensieri, il mare. Il piccolo eroe- quando sono ammalati i bambini sono sempre eroi, e salvano i grandi dalla disperazione- lo aveva avvistato urlando di gioia. Nella loro meravigliosa terra sassosa  potevano godere altro, e altro sole, e altra pace. Ma non il mare. Odore di mare, adesso, sull’autobus che li portava dalla stazione alla fermata che era stata loro indicata. Un pezzo di strada con la ghiaia ancora lasciata a terra da un cantiere appena finito, ed eccola. La Casa Rossa. Una grande, nuova casa sul mare- era stato un cantiere navale, raccontavano i volontari che li avevano accolti- che era lì per loro, e per altre famiglie che stavano arrivando. Ebbero l’impressione di entrare in un sogno, terribile ma stemperato da porte che si aprivano, braccia che accoglievano, letti pronti, una doccia per togliersi finalmente di dosso il sudore del viaggio e della paura. Davanti alla finestra, ancora il mare, luccicante come solo in agosto il mare sa essere. E a pochi passi, l’Ospedale. Pochi passi per non perdersi, da domani, in questo viaggio che sembrava finito, e invece incominciava.          

Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

La sua vita era un’equazione di secondo grado nella quale delta era uguale a zero. Le due soluzioni erano coincidenti ed entrambe gli sussurravano all’orecchio una parola: andare. Sapeva che era sbagliato, scappare dai propri problemi. Era consapevole del fatto che il treno non si sarebbe fermato di certo ad aspettarlo, perciò velocizzò il passo. La stazione alle dieci del mattino poteva essere paragonata ad un formicaio appena pestato da un bambino.

Urla, spintoni, suoni chiari e ovattati alternati come pedine bianche e nere su una scacchiera. 

Senza neanche avere il tempo di scusarsi, urtò un vecchio. Dopo il contatto con la sua spalla, vide a terra un pacchetto. Si fermò per raccoglierlo e una volta messo a fuoco, si rese conto di  avere raccolto una scatoletta di fiammiferi. Alzò lo sguardo per restituirli all’uomo, perso ormai nella tempesta di volti e corpi. Salì sul treno a fatica, facendosi largo a gomitate e sospiri. Una volta preso posto sul sedile e sistemata la valigia, tirò fuori dalla tasca la scatola marrone, lo aspettavano due ore di viaggio e le distrazioni erano piuttosto limitate. I fiammiferi erano ventuno, probabilmente il pacchetto era già stato aperto, fu sorpreso nel notare il colore azzurro della capocchia. Rimase stranito, i pochi cerini visti nella sua vita tendevano tutti al rosso. Sotto il legno fragile si trovava un foglietto, sembrava un libretto delle istruzioni.Il “foglio illustrativo” era tendente al giallo, puzzava di naftalina ed era accuratamente ripiegato in quatto parti. Ne lesse curioso il contenuto: “scrivere una data, non futura, sul bordo del fiammifero e accendere”. Strizzò gli occhi incredulo e rilesse sottovoce. Una data? Non ne capiva lo scopo. Ma in fondo, cosa aveva da perdere nel provare? Si rivolse alla signora nel sedile vicino per chiedere una biro. Non poteva farsi vedere mentre accendeva un fiammifero nel vagone, perciò si alzò per dirigersi verso la toilette. Una volta dentro, calcò con l’inchiostro blu sul legno sottile del fiammifero, la data stampata sul suo biglietto di andata.Sfregò la parte azzurra e,dopo qualche tentativo, vide la fiamma.

I contorni della stanza diventarono via a via più sfocati, tanto da costringerlo a chiudere gli occhi. Una volta riaperti, la testa girava vorticosamente e impiegò qualche secondo per realizzare di non trovarsi più sul treno. Si diede un pizzicotto sul palmo, già sapendo che non avrebbe portato i risultati sperati. Era stato qualche fumo tossico sprigionato dal fiammifero? Non riusciva a capire. In quel momento si trovava in una creuza, per meglio dire, quella che aveva percorso per arrivare in stazione. Era sudato e il quadrante dell’orologio indicava le 09:26. Possibile che dovesse ancora recarsi in stazione? Controllò la data sul telefono che confermò le sue ipotesi. Era tornato indietro di qualche ora, sempre che non si trattasse di un’allucinazione.

Realizzò che per una volta un’inversione di rotta non gli avrebbe fatto male, girò il timone con forza, tastò i fiammiferi nella tasca dei pantaloni e questa volta corse giù per la discesa, facendo attenzione a non incastrare le rotelle.

Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

Ora le valige hanno le ruote e si chiamano trolley, pensò, ma pesano lo stesso. La sua l’aveva riempita velocemente, senza curarsi di quello che toglieva dai cassetti.

Il taxi arrivò in pochi minuti e, per raggiungere l’aeroporto, imboccò la sopraelevata. La città scorreva sotto i suoi occhi e lei ripensò alla prima volta che l’aveva vista, arrivando dal mare. Era molto diversa allora: c’erano gru dappertutto che aggredivano le colline come un esercito invasore. A lei sembrò bellissima, quella città tutta in salita, come il quadro futurista di Boccioni. Erano gli anni 70, lei aveva 19 anni e la notte precedente, in traghetto, mentre percorreva il tratto di mare che separa Genova dalla sua isola le era sembrato di attraversare secoli di storia. Sua nonna vestiva di nero, portava il fazzoletto in testa, come avevano fatto generazioni di donne prima di lei. Non aveva mai smesso il lutto dopo la morte della figlia. Sua madre. Quella che lei non aveva mai conosciuto.

Se n’era andata dal suo paese sull’altipiano, dove le nuvole corrono veloci, con una borsa di studio e una valigia di cuoio dalle maniglie consumate. Non sapeva di essere incinta quand’era partita. L’aveva scoperto vomitando nei bagni della Casa dello Studente.

Se vuoi tenerlo devi informare il tuo ragazzo, ma solo se vuoi tenerlo. – le aveva detto la sua compagna di stanza – E questo lo puoi decidere solo tu.

Ma se lo faccio nascere questo bambino – pensava – perderò la borsa di studio e, prima o poi, l’incolperò di aver cancellato il futuro che sognavo. No, io scelgo il sogno.

Così aveva fatto credere al suo fidanzato che l’amore si fosse dissolto e s’era costruita una vita altrove.

Ma ora babbo, ultranovantenne, era morto: lei doveva tornare al paese per i funerali.

Ci sarà lui? – si chiese per tutta la durata del viaggio – Che gli dirò quando lo vedrò? Come lo saluterò? E se fosse lui a non volere salutarmi?

All’aeroporto di Cagliari, in cui arrivò la sera, dopo un lungo scalo a Roma, gente ce n’era poca, ma anche se ci fosse stata una folla, i suoi occhi li avrebbe riconosciuti ovunque. I loro sguardi si incrociarono e il tempo rimase sospeso. In quell’attimo Grazia rivide le sue scelte e, negli occhi di Loris, lesse come sarebbe stata la vita che non aveva scelto, la persona che non era diventata.

Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

Erano passati sei mesi, da quando giunse l’ultima volta davanti alla palazzina bianca che quella mattina lo accoglieva illuminata da un sole ingannevole, che ogni tanto si nascondeva tra nuvole nere galleggianti in un cielo che di lì a qualche ora avrebbe potuto regalare pioggia. Non era cambiato nulla.

Prima di salire i tre gradini di ardesia dell’ingresso, si avvicinò al giardino, osservando con qualche apprensione gli arbusti di oleandro che anche loro mostravano i segni di una visibile sofferenza. Stava perdendo fiori e le foglie erano ingiallite, probabilmente era colpito da un fungo ,se non dal cancro batterico.

Quel che sapeva delle piante glielo aveva insegnato zio Vittorio, quando da bambino lo aiutava a curare l’orto attorno alla casa, in quei lunghi pomeriggi d’estate in cui si sentiva forte come un leone anche quando  faceva  una pausa e si  sdraiava nell’erba a prendere il sole. Senza scordare che la terra, le verdure, i fiori avevano regole ferree.

In quell’afosa giornata era curioso ,mentre afferrava il trolley per tirarlo su verso la porta, che i suoi pensieri andassero agli oleandri di zio Vittorio, come se fosse lì tutto il mondo che da ore si stava trascinando dietro su due rotelle. Arrivato all’ultimo gradino, pensò a Fabia, impaurito e sudato. A quando facevano l’amore sullo ScoglioPiatto, alle nuotate fino alla spiaggia, alle camminate silenziose nel parco.

Tutto prima di quella sera, quando in moto correva giù ,tra acceleratore, freno, seconda e terza e quarta,  dalla collina di San Michele al mare. 

Doveva correre per scoprire subito il mistero di quelle luci accese nello studio e in terrazzo   viste appena uscito dal tornante della via Aurelia.

Fabia è arrivata in anticipo di un giorno da Londra, pensò. Oltre la porta aperta con la serratura forzata c’era una montagna di carte e giornali.

 A terra anche tutti i libri degli scaffali, nessuna traccia del pc portatile, della raccolta di vecchie moleskine. Un  vaso di ceramica di Albisola era a pezzi sopra il baule e la televisione accesa su incontro di pugilato in Texas, con l'esclusione audio.

Non era mai stato così facile maledire una incursione  di ladri alla ricerca di soldi e oggetti di valore.  Da un cassetto  spuntavano  il passaporto, una clip con  quattro biglietti da cento euro  e la carta di credito  e l’orologio subacqueo. Cercavano altro. Non avrebbe mai immaginato che stava per infilarsi in una storia complicata e imprevedibile.

La porta della palazzina bianca si aprì all’improvviso.

 Buongiorno, eccomi. Il professore si aggiustò con la mano sinistra le penne nel taschino del camice e lo fece entrare e accomodare sulla poltrona davanti alla scrivania. Poi aprì la schermata del computer. L’uomo seduto era distrutto e non riusciva a staccare gli occhi dalla cartellina arancione con scritto il suo nome che il professore teneva fra le mani.

Aspetti, c’è anche questo, gli disse il professore che gli stava puntando una Glock  calibro 9 alla fronte.

Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

Certo, non era proprio il miglior modo per andarsene: di nascosto, all'improvviso. Da vigliacco. Ma almeno era consapevole della sua viltà: se avesse provato a spiegarle, ancora una volta, di come le cose tra loro stessero precipitando, ne avrebbe ottenuto solo una marea di pianti e isteria, frutto di cinque anni passati insieme a compatirsi e allontanarsi; sarebbe finita con l'ennesimo tentativo di ricominciare, resettando tutto: la maschera che indossano le coppie per paura di abbandonare le proprie abitudini. Solo tranciando di netto la loro quotidianità, avrebbe potuto dimostrare quanto la loro somma desse in realtà un valore negativo, una risultante deleteria che, al massimo, poteva portare a un futuro di reciproca tolleranza.

Il viale che stava attraversando era deserto. Il trolley che trascinava era diventato più pesante,il cuore gli batteva più forte, la testa gli si riempiva dei ricordi di ciò che loro due erano stati: zucchero e fiele, uniti dalla frase che, regolarmente, apriva loro un mondo: "di te mi fido". Pronunciata da lui, da lei, a volte quasi all'unisono, dopo un pianto, o un accordo, con la voce rotta di chi ha appena passato una giornata dimenticabile, ma sempre nel liturgico rispetto di quelle parole. Si erano detti tutto, in quei cinque anni, finché lui non percepì il trabocco: troppe discussioni, troppe polemiche, troppe accuse. Era avvilito, soprattutto dalla necessità di dover sempre chiarire ogni minima anomalia che lei notasse. Mentre una volta bastava sorridersi con gli occhi e "di te mi fido", spontaneamente.

Raggiunse la stazione affaticato.  Il treno era visibile da lontano. Improvvisamente gli si offuscarono tutti i pensieri e la malinconia si dileguò. Era distante anni luce dalla sua vita. La sua stasi fu interrotta dal fischio del treno che arrivava. Sbirciò l'interno dai finestrini offuscati: dentro, era un convoglio come tanti. Uguale a quello che lui e lei presero per il loro primo viaggio insieme; fu portato con la mente ad allora, quattro anni prima, quando lei era preoccupata. Si preoccupava con gli occhi. Lui li vedeva e ciò gli dava la forza di raccattare due frasi confortanti perché gli era vitale vedere il sorriso in quegli occhi per non crollare. Erano due fragilità che si compattavano coincidendo. Come coincisero anche quella volta: bastò tenersi la mano e due o tre parole, quelle che piacevano a lei. Gli occhi le sorrisero, come tutto il resto, e finalmente ecco quelle sillabe soavi: "di te mi fido". Il ricordo di quegli occhi e quelle labbra autrici di quella dolce sentenza, gli rischiarò l'animo: tutti i nuovi volti e le espressioni che avrebbe potuto incontrare, sarebbero stati annichiliti di fronte a quegli occhi che rinvigorivano solo a guardarli.

Raccolse il biglietto che aveva in tasca, lo stropicciò in mano per poi lanciarlo in una pattumiera lì vicino. Col capo chino e l'animo sereno, si incamminò per impegnare il viale da cui era venuto.

Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

Erano passati ventinove anni da quando Marco aveva lasciato il paese. Ormai era un uomo, anche se era sempre stato trattato così dai suoi genitori. Figlio unico, tirato su a pane e morale novecentesca, poco studio, quel tanto che basta per superare la scuola dell'obbligo e poi subito nel mondo dei grandi a tirare su cemento sotto il sole cocente della Barbagia, tra gli ordini beceri dei suoi capi e le bestemmie in dialetto stretto dei colleghi. Vietato sognare. Padre anch'esso muratore e madre insegnante di religione. Un predestinato alla fatica e agli obblighi di una vita umile. Quel giorno era stanco, sfiancato da un passato ingombrante, ma appeso a una speranza lieve che aveva tenuto ben nascosta per tutti i suoi 47 anni. Nessuno sapeva del suo viaggio, non la moglie che non aveva mai amato, non i figli frutto di un matrimonio voluto soltanto dai suoi genitori e nemmeno gli amici con i quali passava le serate al bar sotto casa, tra l'ennesima ichnusa e i fondi dei bicchieri nei quali finiva inevitabilmente per specchiarsi con una malinconia greve. Troppe serate a domandarsi cosa sarebbe accaduto, troppi rimpianti per non tornare a cercare l'unica che sia realmente riuscita a farlo sentire vivo. Il paese non era cambiato affatto, incastonato sulle immense montagne del Gennargentu; gli stessi rocciai di granito, le stesse case, gli stessi campi, le stesse stradine malconce. La stessa desolazione che ormai si portava dentro da troppo tempo. Eppure in quel luogo che ormai si era dimenticato di lui, sperava ancora di poter rivedere i suoi occhi castani nei quali amava perdersi durante le ore di lezione. La casa era quella. Titubante e rosso in volto per l'imbarazzo bussò alla porta. Un eco vuoto si fece strada prima attraverso i suoi padiglioni auricolari e poi dentro di lui. Lo stesso vuoto che si portava dentro da quando se ne era andato. Attese un istante, ma nessuno venne ad aprire. Era stato uno sciocco pensava, cosa sperava di trovare? In quel momento la voce del padre si palesò nella sua mente e un giudizio irriguardoso per i suoi sentimenti lo travolse ancora una volta. Ancora in quel posto. Dopo momenti di confusione un'altra voce giunse a lui, questa volta però differente, non giudicava ma chiedeva aiuto. Non veniva da dentro la casa, ma dal granaio a fianco. Lasciò il trolley che si portava appresso e si precipitò di corsa verso quel suono. Non aveva dubbi, quella era Anna. Una visione orribile lo colpì diritto al cuore: catene, sporcizia, miseria umana lasciata lì a marcire per chissà quale crimine commesso. Gli occhi dei due si incrociarono per la prima volta dopo anni e entrambi, seppur in modo totalmente differente, videro soltanto la libertà. Non ci fù alcun momento per le parole, passi pesanti si avvicinavano ai due, ululati di cani, voci rauche e spaventose travolsero tutto in un istante. Un colpo di fucile all'improvviso pose fine a tutto e nell'ultimo istante Marco rivide se stesso negli occhi di Anna e al contempo nel fondo del bicchiere.

Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.

La vide subito. Seduta sulla panchina guardava, attraverso i grandi occhiali da sole, Katie, la figlia di cinque anni, giocare con le papere vicino allo stagno.  Spinse la sedia a rotelle nella sua direzione e quando arrivò vicino a lei si fermò. Rimase in silenzio, guardando le maestose querce, che si tingevano di tutte le tonalità del giallo in quel caldo autunno ben diverso da quelli ai quali era abituato in Illinois.

Con la coda dell’occhio vide che la donna aveva avuto un fremito.

“Ieri sera era ubriaco e come al solito ha passeggiato sul molo fino al limite. L’ho aspettato finché non si è fermato sul bordo estremo. Poi tirare in acqua quel corpo barcollante è stato semplice. Quando lo ripescheranno dall’acqua sembrerà quello che deve sembrare: un ubriacone caduto e affogato”

 “Ci saranno indagini, domande. La polizia verrà da me”

“Non credo vista la dinamica. Fra un paio di giorni denunci la scomparsa di suo marito e poi si goda la sua nuova vita”.

La donna rimase in silenzio. Un sorriso di sottile soddisfazione si accennò sulle labbra.

Fu in quel momento che lui si sentì ancora una volta soddisfatto. Guardò suo nipote Peter sulla sedia a rotelle. Lui non avrebbe mai avuto la vita degli altri bambini della sua età e questo lo faceva impazzire. La donna si girò verso di lui e, sollevando i grandi occhiali da sole, per la prima volta una nuova luce apparve nei suoi occhi. Nonostante fossero neri e tumefatti. Quel momento impalpabile era la sua ricompensa.

  “Per il saldo del lavoro?”

“Una donazione anonima al reparto di terapia riabilitativa dell’Ospedale Pediatrico di Chicago”, le rispose senza guardarla direttamente in faccia.

Ripensò a sua sorella Megan e a quella sera di sette anni prima, quando neanche lui aveva potuto fare nulla per salvarla. Nessuno aveva potuto o voluto aiutarla da quel marito violento che ogni sera sfogava le sue frustrazioni su di lei. Finché non decise di aiutarsi da sola e di lasciarlo. Per vendicarsi lui le scaricò addosso tutto il caricatore della sua pistola d’ordinanza uccidendola a morte e colpendo il piccolo Peter accorso a difendere la sua mamma.

Si allontanò spingendo la sedia a rotelle mentre lei fissava un punto imprecisato nel vuoto, appannato dalle lacrime che scorrevano copiose.

Era un caldo pomeriggio d’autunno, il suo volo diretto a Chicago sarebbe ripartito solo nella tarda serata. Gli sembrava che quella settimana al Centro Polifunzionale Grandi Traumi Pediatrici dell’Università di Berkeley avesse portato qualche beneficio a Peter. Gli sembrava di avergli visto accennare un sorriso. Gli sembrava.

L’indomani sarebbe tornato al suo noioso lavoro di capo archivista della biblioteca centrale di Chicago. Almeno fino alla prossima richiesta d’aiuto."

Marco Cervetto Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale. All’epoca era un esplosione di colori e di vita. La fine della guerra, pochi anni prima, aveva lasciato i suoi segni. Nell’aria però si respirava un soffio di speranza. Come un aquilone sospeso nel cielo pronto a prendere il volo con il vento contrario, lontano da qui, dai timori e dalle difficoltà di un passato ancora così vivo nelle memoria di tutti. Nessuno voleva più aver paura. Il bambino procedeva lentamente in sella alla sua meravigliosa bicicletta, le rotelline laterali scricchiolavano sul selciato. Parevano pronte a staccarsi da un momento all’altro. La vernice del telaio rosso era in realtà scrostata in più punti, dalla sella pendevano brandelli di cuoio quasi fosse stata morsa da un cane e i freni, ormai, non funzionavano più. L’aveva trovata suo padre in un casolare poco lontano dal borgo. Per lui era semplicemente stupenda. Ondeggiando come una barca sul pelo dell’acqua scansò con abilità un paio di ragazzi dai calzoni in velluto corti sopra il ginocchio e un distinto signore intento a fumarsi un sigaro. Superò la drogheria e la sua vetrina. In bella mostra caramelle dalla carta colorata in grossi barattoli di vetro e caffè macinato. Accanto la tripperia e le sue piastrelle bianche alle pareti, il bancone in marmo e le frattaglie appese. L’odore inconfondibile che penetra nelle narici. E poi una merceria, il calzolaio aperto solo alla mattina. Il piccolo chiosco dei giornali. Si fermò in fondo al viale, davanti alla sua scuola. Posò un piede a terra e ammirò il profilo nella porta a vetri dell’ingresso. Era il suo ritratto. La testa rotonda e folta di riccioli biondi, gli occhi celesti come il mare in piena estate e quel cerotto vistoso a tamponare un taglio profondo sul sopracciglio destro che si era procurato dopo una rovinosa caduta dalla sua meravigliosa bicicletta. L’uomo si trascinò a fatica il trolley dietro di sé, lo sentì pesante come non mai. Non era carico. Era lui che era vecchio, pensò. Lungo il viale pochi passanti. Serrande chiuse e auto in sosta a ridosso dei marciapiedi. Raggiunse nuovamente il fondo. Un edificio abbandonato e una porta a vetri ormai chiusa. La sua scuola. Si cercò nel riflesso, ritrovandosi dopo così tanto tempo. La testa rasata, il collo robusto. Quella vistosa cicatrice sul sopracciglio. Si perse nei suoi occhi celesti come il mare in piena estate. Sorrise. --------------------------------------------------------------------------------------------------------- Mauro Boh "La sfida" Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale. Fece ancora pochi passi prima di raggiungere la piazzetta situata in cima alla collina. Da quel punto privilegiato era possibile ammirare l’intero paese godendo una vista incantevole di quel borgo marinaro che dalla spiaggia, dove aveva trovato collocazione un piccolo porto, si era sviluppato con fatica e tenacia sul fianco della collina. Già, fatica e tenacia, esattamente ciò che gli era servito per poter giungere fin lì, in quel posto così lontano dalla sua terra d’origine e dai suoi ricordi. Erano trascorsi pochi giorni dalla sua partenza e per lui sembrava fossero passati decenni, ma si era messo in gioco per capire quanto difficile poteva essere un viaggio alla ricerca di  una nuova vita e quella era ormai diventata la sua grande sfida. Tornò alla realtà a causa di quello che pareva essere l’unico essere vivente in quel posto così assolato, un cagnolino intento a leccare affettuosamente una delle sue caviglie. Lo prese in braccio stringendolo a sé come a cercare il conforto di un essere umano. Che ci fai qui – disse quasi sottovoce alla bestiola – sei solo anche tu, come me? Cercò nella tasca del gilè un pezzo di pane avanzato e lo diede al suo nuovo piccolo amico che sembrò gradire tantissimo il gesto dell’uomo. Decise di tenerlo con sé posandolo con cura nel vecchio carrello del supermercato che aveva trovato abbandonato vicino al porto. Era malridotto e con le rotelle cigolanti ma si era reso utile a rendere meno faticoso il cammino. Al suo interno avevano trovato spazio la borsa di plastica contenente qualche avanzo di cibo, una coperta, una pesante bottiglia d’acqua e, ora, anche il cucciolo. Versò un sorso d’acqua per sé e per il cane poi si guardò intorno alla ricerca di una piccola casa di color giallo. La scorse, ulteriormente abbarbicata sull’ultimo scampolo di terra rimasto prima dell’inizio del rilievo roccioso. Una volta giunto alla meta trovò ad aspettarlo un suo amico che in quella abitazione dava ospitalità a gente bisognosa. “Hai portato a termine la tua sfida – disse l’amico –  e ora hai capito cosa vuol dire lasciare tutto, vero?” Questa volta la goccia d’acqua che scendeva lentamente sul suo viso non era sudore ma una lacrima capace di rendere inumiditi, al contempo, i suoi occhi e la sua anima. “Fammi entrare in casa, ho bisogno di fare una doccia”.    ----------------------------------------------------------------------------------------------------------- Annamaria Pastorini Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale. Abbassò lo sguardo e incontrò quello di un gattino che corse a nascondersi dietro uno scatolone rovesciato poi si avvicinò tremando, sperando probabilmente in un po’ di cibo, lo annusò e trovandolo piacevole, probabilmente per l’aroma della focaccia che aveva inzuppato nel cappuccino un’ora prima, cominciò a strusciarsi con voluttà dalle mani alle caviglie e viceversa.  Lo prese in braccio e il gattino trovò ancora più piacevole l’odore della sua barba nella quale qualche briciola era rimasta impigliata mentre con il nasino umido frugava tra i peli alla ricerca  di qualcosa di più consistente da sgranocchiare. Non trovando niente di utile allo scopo si portò, artigliando la giacca spigata, verso la spalla e lì si accomodò, emettendo un frrrfrrr di gradimento. Sorrise ripensando a quante volte Luisa gli aveva ricordato di pulirsi la barba dopo aver mangiato, e di quante volte lui aveva sbuffato. Una lacrima si fece strada sul suo viso, greve di tutto il peso dei ricordi. Come avrebbe voluto che Luisa fosse ancora al suo fianco a pulirgli la barba con quelle odiose salviette al profumo di lavanda invece di essere rinchiusa sotto forma di fotografie e lettere nel trolley fucsia che si trascinava dietro. Il gattino lo riportò alla realtà leccando una guancia e mordendogli il lobo con i dentini aguzzi. Si avviò verso il centro del paese, raccogliendo sguardi incuriositi e facce sorridenti come mai nella sua vita. Vide in lontananza la persona con cui aveva appuntamento che si avvicinava incuriosita. Buongiorno signor Taverna, le ho portato le chiavi. Mi sono permesso di venirle incontro perché la signora Bianca, quella fa la vedetta lombarda anche se siamo in Liguria, mi ha chiamato avvertendomi che era arrivato e che girava in paese  con un gatto sulla spalla come al circo. Grazie mille Gino, la casa è in ordine? Belin ci mancherebbe, per lei e per la signora Luisa io ho sempre fatto tutto a modino e ora che non c’è più ho anche pensato al vaso di lavanda che le piaceva tanto. Sorridendo tra sé e accettando il fatto che la sua vita era stata segnata dalla lavanda e che ancora lo sarebbe stata anche nel suo eremo sul mare si avviò verso casa, e voltandosi verso il gattino decise di chiamarlo Lavanda ---------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Cinzia Bordon "Resurrezione" Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale. In fondo apparve la villa, bianca e maestosa, come la ricordava. Da tre anni non tornava a casa e nessuno lo stava aspettando. Chiuse gli occhi immaginando l’interno: il salone con il lungo tavolo da pranzo, la stanza con centinaia di libri, ben allineati su due intere pareti, la sua camera affacciata sul parco. L’infanzia serena, l’adolescenza vissuta in fretta, come se avesse già saputo che, poi, tutto sarebbe cambiato. Si affrettò colto da un’improvvisa voglia di arrivare. Il caldo lo infastidiva ma ormai non aveva più importanza. Come non lo erano più tutte le frasi che da tempo gli venivano scagliate addosso, colpendolo: “poteva andare peggio” oppure “sei fortunato a essere ancora vivo”. Loro non conoscevano le grida di dolore e di rabbia soffocate nei cuscini di mille notti, non capivano quanto fosse difficile fare qualsiasi fottuta cosa. Così aveva tracciato un confine, eretto un muro, scavato una trincea nella quale rifugiarsi. Uscito dalla clinica di riabilitazione aveva affittato un bilocale vicino al lavoro e si era trasferito lì. I suoi andavano a trovarlo ogni tanto ma lui trovava mille scuse per evitarli. Non riusciva a capacitarsi che in un attimo, la sua vita fosse cambiata per sempre. Il fratello rimasto senza benzina, i genitori fuori a cena. “Vai tu a prenderlo” gli avevano imposto. Un sasso sull’asfalto bagnato ed era volato con la moto in aria. Sbam! Buio, fine. Aveva parcheggiato l’auto in fondo alla salita perché voleva tornare a casa con le proprie forze. Erano stati tre anni lunghissimi, ma una sera la rabbia si era calmata, il rancore assopito e aveva cominciato a fare progetti per il futuro. Tante cose gli erano negate ma tante erano quelle che ancora poteva fare. E le avrebbe fatte tutte, ne era certo. Le rotelle continuavano a cigolare sulla ghiaia e il rumore sembrava musica ritmata. Era arrivato. Il portico era spazioso con due siepi ai lati dell’entrata. Si asciugò la fronte con il dorso della mano. Guardò i gradini che portavano al portico e vide che era stato installato un montascale. Sorrise e capì: tutta la sua famiglia lo stava aspettando da tempo, in attesa della sua resurrezione e del suo perdono. Suonò il campanello premendo con forza: si sentiva un uomo nuovo, pronto a riprendersi la vita e a pretendere la sua parte di felicità. --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Emanuele Incorvaia Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale. Marinella aveva 23 anni e la pelle bianca come la schiuma del mare. Sul viso gli occhi sembravano due zaffiri lucenti. Le labbra rosse e sporgenti,un piccolo ponte fra la fanciullezza e l'età adulta. La nonna le aveva raccontato che quando il futuro ed il destino arrivano, non si può nulla, bisogna solo piegare la testa, e accettare. Lei non aveva mai creduto  a quelle parole.Forse la vecchiaia l'aveva resa cosi fatalista oppure la nonna apparteneva ad un altra generazione, la classe dei nonni che tutto affidano alla provvidenza.  Fu la vita a smentire la sua incredulità. Era passato un anno dall'incontro con Carmine. Ufficiale di marina, bello come un tramonto.Indossava il fascino come un accessorio. Passeggiando sul lungomare si erano innamorati. Sebbene avesse il volto luminoso, Carmine sembrava nascondere il buio silenzioso della notte nel cuore. Marinella aveva nutrito il sospetto una sera, Carmine era stato lesto a bere una bottiglia di vino, a cena. Le avevano parlato della sua fama di amante e bevitore e di certi altri fatti che sembravano averla sbigottita ma non convinta del tutto.Carmine non era questo,pensava. Fu una sera di agosto a spezzare l'equilibrio. Un vestitino a fiori sposava con grazia il suo corpo. Lei e Carmine finirono di cenare, lui aveva bevuto, sembrava reggersi ancora in piedi. Non aveva un tono minaccioso, ma le sue mani avevano assunto un movimento sanzionatorio. Tenendola sotto un braccio l'aveva condotta d'un tratto in una stradina adiacente senza uscita.Era notte fonda. Marinella ebbe paura. Pianse,mentre le dita di lui si trasformarono in duri tentacoli sulle sue gambe.L'innocenza di ragazza fu rotta come un vetro e il silenzio della sera fu strozzato da un sottofondo di urla e muto godimento. Arrivata alla stazione, Marinella salì sul treno. Adesso era una donna. Era incinta.La nonna la aspettava in Sicilia, solo lei avrebbe potuto capirla. La vita improvvisamente l'aveva calpestata come un carro armato fa con i soldati morti in guerra. La nonna aveva ragione. Quando il destino arriva, bisogna piegare la testa. Ma la speranza era come il sole che sorge, dopo avere lasciato spazio alla tenebra.Marinella sorrise, carezzò la pancia. E dopo un lungo respiro pensò che se fosse stata una femminuccia l'avrebbe chiamata Alba. -------------------------------------------------------------------------------------------------- Patrizia Diliberto "Erinni" Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale. La accolse il refrigerio dell’ombra dei tigli che le parve di buon auspicio: nella calura di agosto era il conforto di una speranza. Chi l’avesse incontrata non avrebbe mai immaginato che quella giovane donna stesse fuggendo. Sembrava una turista, giunta nella cittadina ligure per trascorrere le ferie sulla spiaggia, non una donna angosciata, incalzata dalle proprie Erinni. Si volse indietro, come per assicurarsi che nessuno la seguisse e si fermò a riprendere fiato. Dinanzi a lei ville in stile Liberty mostravano tutta la loro fiera e immutata bellezza. Facciate a stucco, abbaini parigini, torrette vezzose facevano a gara a ricordarle tutto ciò che aveva dovuto lasciare: una vita agiata ed una dimora da sogno, che all’inizio era stata un castello fiabesco, ma che, con gli anni, era diventata il simbolo del male da cui la sua coscienza e una ritrovata dignità l’avevano costretta a staccarsi. Si scosse, non poteva indugiare troppo; aveva fatto ciò che occorreva ed ora non poteva far altro che dare seguito alle sue azioni. Non aveva più amici, se mai ne avesse avuto qualcuno vero, non aveva più famiglia. Era sola, con la sua valigia e le speranze di una nuova esistenza, lontano da un marito che la considerava l’ennesimo trofeo di una vita costellata dai ben tristi successi di un capo mafia. Le sembrò di essere osservata: quella sensazione ben nota di occhi posati sulle spalle, di uomini nell’ombra a seguire ogni suo passo le era troppo familiare per potersi sbagliare. Si volse nuovamente, ma non vide nessuno, riprese allora il cammino ripetendo sottovoce l’indirizzo dove avrebbe trovato asilo in cambio di un piccolo aiuto domestico, in attesa di ricevere i documenti di una nuova identità. Aveva pensato molto a cosa significasse diventare un’altra persona;  aveva cambiato taglio e colore di capelli, abbigliamento ed abitudini, così da non riconoscersi quasi allo specchio, ma ora, con un nuovo nome, non sarebbe più esistita. Sentì un fruscio ed una lama affondare nella carne. Ebbe appena il tempo di pensare che non ci sarebbe stata un’altra vita perché la passata l’aveva ritrovata, quando, mentre i suoi occhi si spegnevano su quel cielo sconosciuto, udì un’imprecazione: “Chi diavolo è questa donna?” e comprese che si può sfuggire alla vendetta, ma non al proprio destino.    -------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Laura Marinelli Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale. Il passeggino è vecchio, e con questi sassi… pensò Kira mentre lo spingeva. Le sue mani per lo sforzo, diventarono rosse. Sporche, lo erano sempre. «Sembra che hai pulito chili di alici. Guarda che schifo hai sotto le unghie» le diceva il fratello. Kira non aveva mai toccato un pesce, anche se andava a pesca da quando era piccola. Alla sua canna, una spranga senza lenza, non abboccavano spigole, ma rifiuti. A dieci anni, conosceva i posti migliori in cui gettare le reti, nel mare di vie e di cassonetti della sua città. Entrava nel bidone, e ne usciva a volte con qualcosa tra le mani. Come lo stuzzicadenti tira fuori la chiocciola dal guscio, così Kira arpionava la chincaglieria con la sbarra di ferro e la metteva sul passeggino. Gli oggetti erano i ricordi di qualcuno, e lei li osservava. Stringendoli tra le mani gli regalava attimi di vita. Momenti d’immortalità, che terminavano non appena Kira volgeva lo sguardo su un altro cassonetto. Quel giorno aveva paura di tornare a casa. Sul passeggino non c’era niente di qualità. Aveva imparato dalla strada a distinguere le cose di valore. Non era la gazza ladra che prendeva tutto quello che luccicava: era una ragazza. Con il ra nel prefisso che tutti leggevano rom. Nel fare la curva, il peluche cadde dal passeggino. Perché non ti l’ho lasciato nel bidone? si chiese Kira guardandolo. L’orsetto era sporco di polvere, gli occhi due bottoni marroni. Lo raccolse, e senza sapere perché, lo rimise al suo posto. Arrivò al campo. Cumuli di rifiuti, come le sfingi viste nei film, erano ai lati del viale. Kira lo percorse con l’ansia di venir assalita e non dai leoni, ma dal padre che gli veniva incontro.   «Che hai rimediato?» «Mm-m…» «Un orsetto? Va via, se no t’ammazzo.» L’uomo urlava. I suoi occhi sembravano opali, che mai nessuna gazza avrebbe portato nel nido. Kira raggiunse le amiche. Giocavano col tubo a schizzarsi l’acqua. Si spogliò, e in mutande sotto i getti, si sentì meglio. Correva tra le pozzanghere insieme alle altre. Chi più chi meno, dimenticava: la giornata, il passato… le cose. Il peluche era ancora sul passeggino. Ana, con indosso solo il pannolino, rise quando lo prese in braccio. Poi si voltò verso le grida divertite delle ragazze, e lo buttò per terra. Le raggiunse. L’acqua le bagnò i piedini e lei batté le mani. ------------------------------------------------------------------------------------------------------------ Gaspare Sinno – Flaminio Annamaria Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale. Vide un bambino venirgli incontro. Trascinava una piccola sacca di colore nero. Erano ormai uno di fronte all’altra, il piccolo allungò la sua manina … Si svegliò di soprassalto, la fronte madida e il cuore a mille. Provò ad alzarsi dal letto, ma una fitta al basso ventre le strappò un lamento. Accarezzò con la mano la pancia ingrossata e tonda. L’ ecografista le aveva detto che era un maschio e lì, sdraiata sul lettino, aveva pianto, senza alcuna vergogna. Il medico si era affrettato a  rassicurarla  che tutto procedeva per il meglio, imputando la sua reazione alla tensione e alla paura che spesso provano le gestanti. Si ricordò del sogno e del bambino: era biondo, con gli occhi verdi proprio come Mario, il padre della creatura che portava in grembo.  Di solito per una donna la gravidanza  è un evento gioioso, ma per lei, purtroppo non  era così. Gli aveva detto timorosa che era incinta e aveva provato vergogna ed umiliazione quando lui, uomo “felicemente sposato”, l’aveva guardata con rancore e con voce gelida aveva ribattuto che quel bambino non era un suo problema. Aveva sofferto e pensato più volte di farla finita, ma fortunatamente l’istinto di conservazione, o la vigliaccheria, avevano avuto il sopravvento.  Prese il bicchiere sul comodino e bevve un sorso d’acqua per placare l’arsura, poi si girò su un fianco e lentamente scivolò di nuovo nel sonno. Erano di nuovo  lì,  lei e il bambino, uno di fronte all’altra. Silvia iniziò a parlargli. Con voce cantilenante, proprio come fa  una mamma quando vuole rassicurare il suo piccolo, gli raccontò di lei, della sua vita, delle sue ambizioni e delle sue delusioni. Il piccolo la fissava, lo sguardo triste di chi deve andar via. Silvia percepì la sua immensa sofferenza.  Rabbrividì:  quel bimbo era suo figlio, quel figlio che portava in grembo e  soffriva perché sapeva che non sarebbe mai nato. Allungò la mano per carezzargli il viso, Il bambino sorrise e le porse la sua sacca vuota. “Riempila tu”, le parve di sentire. Il dolore divenne più forte, il bambino la salutò e scomparve. Silvia si svegliò. Stava male, sudava e respirava a fatica. Si alzò per andare al bagno e vide con terrore una macchia di sangue sul lenzuolo di lino bianco. Forse il suo era un sogno premonitore, forse davvero lei e suo figlio si erano detti addio. Prese il cellulare e chiamò il 118, poi perse conoscenza. Riaprì gli occhi in un letto d’ospedale. Le occorsero una manciata di secondi per ricordare cosa fosse accaduto. Terrorizzata posò la mano sulla pancia e attese trepidante. Pochi minuti dopo, suo figlio si mosse. “Sei qui piccolo mio”, pensò. “ “Quella sacca la riempiremo insieme, giorno per giorno”. Sorrise, si sentiva serena, appagata. Era pronta ad affrontare la sua nuova vita. ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------ Cecilia Costa Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale. Cinquanta metri. Si fermò. La felpa, appiccicata sotto le ascelle tinte di rosso vivo e umidiccio, lo stringeva comprimendo il corpo acerbo, in continua crescita; lo avvolse un odore acre: paura, adrenalina e testosterone. Fece volare la lampo e appallottolò tutto nello zaino gonfio. Perché lo aveva fatto? Non ricordava. Rabbia e rimorso lo scurirono. La fronte sudata appiccicava i ciuffi ramati in un intricato rovo di ricci. Il dolore, motore silenzioso che lo faceva andare avanti, temeva lo avrebbe divorato. Dove andare? Perché si scappa sempre da qualcosa e i cattivi perdono sempre, ripetevano amici, professori, genitori e suo fratello. Ma lui non sapeva più da che parte stare. Salì di corsa la scalinata, si allontanò dalla strada principale ritrovandosi sulla cima della collina, lo sforzo e una fitta lo attraversarono. I palmi sembravano infuocati, di un rosso quasi violaceo, trafitti da graffi e tagli che si incastravano alle linee dei suoi tratti. Mollò la presa dallo skate che rovinò a terra, le ruote ancora giravano producendo un sibilo che si impossessò della sua testa. Aprì e chiuse il pugno destro e si osservò: dita così magre e tremolanti, un bambino, ecco cosa era. Ma aveva picchiato, con forza e violenza. Knock Out! I ricordi si sfocavano ma distingueva le grida, vedeva gli occhi imploranti e segnati dalle lacrime, gli stessi che lo avevano visto crescere senza perdere occasione per ucciderlo ad ogni sguardo. Sentiva risate, stridule, quasi sinistre, le sue. Poi il silenzio delle mosche che si erano chiuse a cerchio attorno al corpo svenuto di suo fratello, come sempre. Solo che questa volta era lui la vittima. Caldo contro il freddo del rancore, lo sentiva sulle nocche sbucciate. Era riuscito a rompere il silenzio che da anni copriva sghignazzi, battute, ruote bucate, giochi rubati e compiti venduti a sua insaputa. Camminò avanti e indietro per una decina di minuti. Non poteva tornare a casa, non lo avrebbe fatto. Aveva dodici anni e la secchezza del suo essere lo rendeva un niente vicino alle grandi querce imbrunite, il passo incerto, lo zaino abbandonato su una panchina, le unghie triturate dai denti. Aveva paura, tanta, ma non doveva, glielo aveva ripetuto spesso suo fratello. È banale averne, è solo un mostro che ti imbavaglia. Ma il suo mostro era lontano centinaia di metri, circondato dai suoi, bianco, freddo, sanguinante. Un morto distante da lui. Diede un ultimo sguardo alla città che sovrastava. I palazzi tutti uguali, con i tetti quadrati e i poggioli con i panni stesi, una striscia di mare dissolto sempre più nel cielo lattiginoso separato dall’acqua da un confine blu scuro disegnato a penna. Oltre di lui, le chiome cangianti degli alberi erano mosse dal vento. Voltò le spalle al mondo, diede una spinta allo skate montandoci sopra e scivolò verso il basso come senza peso, come se volasse per davvero. Nelle orecchie l’eco di una canzone dei Linkin Park: “And you're angry, and you should be, it's not fair” Via. Lontano. Casa. Pensò. -------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Francesca Tosi "Agrodolce" Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale. La casa era quasi identica: due piani, facciata rosa e un giardino di limoni. Suonò il campanello. "Apri, sono io, Dria." Due minuti-secoli, poi la porta si apre. Una signora con una testa di capelli candidi appare sulla soglia. "Sei proprio tu, Dria! Entra." L'ingresso è freschissimo. "Non avrei mai pensato di rivederti." "Nemmeno io. Non sapevo nemmeno se abitavi ancora qui." "Invece ho sempre abitato qui, anche da sposata. Con Giuanin." I due tacciono, intenti alle stesse immagini. Festa del paese, orchestrinasulla piazza a picco sul mare. Le ragazze sedute da una parte, gli uomini dall'altra. Musica, luna, mani che si sfiorano. "Perdonami Anna, ero a militare. il Tognu diceva che uscivi con Giuanin. Non rispondevi alle mie letteree." "Perché l'Adalgisa diceva che uscivi con una ragazza di Cuneo." Altro silenzio. Sui due grava la nostalgia più forte, quella che si prova per ciò che non è mai stato. "Ho una figlia, due nipotini. E tu, Dria?" "Ho sposato una di Milano. Quando il padre è morto ho preso il suo posto nella ditta." "Hai un po' l'accento milanese." "Ora i figli mi mettono da parte, sono vecchio." Anna sospira. "Cos'hai, sei triste?" Lei nota che lui, pur essendo un uomo, si accorge dei suoi stati d'animo. Non come Giuanin, lavoratore ma un po' stundaio. Gli apre un po' il suo cuore. "Sì, sono triste. Mia figlia dice di vendere tutto e di trasferirmi in città: mi dispiace. Ti mostro la casa: questa è la cantina, Giuanin ci teneva gli attrezzi." Si interrompe, gli accenni a Giuanin  possono non far piacere. "E queste cosa sono?" "Le mie marmellate di limoni." Dria passa dalla malinconia all'animazione. Si guarda intorno con occhio critico. "Anna." "Dimmi." "Non stiamo qua a compatirci." L'accento milanese è più marcato. "Io non mi compatisco proprio per niente." "Sì che ti compatisci." Dopo cinquant'anni ricomincia uno dei loro litigi. "Ascolta: questa è una miniera d'oro. 'I limoni'. b&b con vista mare." Immagina già il sito web: gli anni a Milano l'hanno cambiato. Ad Anna sale un moto di ribellione, quello che ha spinto i giovani del paese ad imbarcarsi. Dentro di sé accetta, accetta tutto. "Ci penserò. La mia marmellata la vendi ma non l'assaggi?" Arriva con un piattino. La musica e la luna non ci sono più. La vita li ha cancellati.  Ma è nato qualcos'altro. ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------ Alberta Greco "Guardo avanti" Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale. Poi si fermò come se qualcosa gli impedisse di proseguire. Una goccia di sudore gli stava scendendo dalla fronte, la mano lasciò per un attimo la ruota e la asciugò. Non era più abituato al caldo della sua terra. Pensò: “Quanto poco mi è bastato per dimenticare il mio paese, la mia gente, ma non ho dimenticato lei. Quanto era bella! Ho un'immagine fissa nella mente: lei sulla spiaggia, l'ampia gonna colorata mossa dal vento, il suono cristallino della sua risata e quel modo che aveva di inclinare la testa da un lato e guardarmi con un'espressione dolce e severa allo stesso tempo. Aveva quell'espressione anche mentre mi stava dicendo di non andare. Avrei dovuto ascoltarla, ma non potevo. Non io. Mi vantavo di essere un ribelle, una testa matta, come diceva lei. Da quel giorno non l'ho più vista, non l'ho più voluta vedere. Non so neanche io perché. Anzi lo so: vergogna! Vergogna per non averle dato retta, vergogna per quello che sono diventato. Volevo scappare da tutto, da tutti e tutti lo hanno accettato, ma non lei. Lei ha continuato a cercarmi. Mi ha chiamato, mi ha spedito lettere, ma non le ho mai risposto. A volte ho pensato di scriverle per chiederle di lasciarmi in pace, di non cercarmi più. Le sue lettere mi facevano male, mi obbligavano a ricordare e io non volevo ricordare quello che non avrei mai più potuto avere. Fino a qualche giorno fa pensavo che non l'avrei mai più rivista, poi, l'altra sera al bar quella coppia ha alzato i bicchieri per brindare; chissà a che cosa, forse al loro amore. Quando i due flute si sono sfiorati quello che ho sentito era il tintinnio cristallino delle sue risate. In quel preciso momento ho capito che era tutto sbagliato, ho chiuso gli occhi e la mia mente mi ha trasportato altrove: ero accanto a lei, qui nel nostro paese. I ricordi, quello che eravamo, si sono fatti spazio nella mia testa e hanno affollato i miei pensieri. Li ho presi, quei ricordi, li ho messi in valigia per portarli con me, per non perderli mai più. Adesso sono qui, non posso fermarmi proprio ora che ho trovato il coraggio, devo spingerle queste ruote, devo muovermi. Ho sbagliato a non ascoltarla quel giorno, ho sbagliato a salire sulla moto, ero ubriaco. Lei lo sapeva, io lo sapevo. Quel furgone che ha incrociato la mia strada era il mio destino, il destino che io avevo scelto per me stesso. Come è facile morire. Quando si è giovani non ci si pensa, ma a me è andata bene, non sono morto, ho ancora la vita davanti, solo che la vivrò seduto su una sedia a rotelle.” La sua mano strinse forte la ruota e la carrozzella iniziò a muoversi, adesso non guardava più verso il basso, ma dritto avanti a sé, il rumore delle rotelle sulla ghiaia ricordava quello dei sassi mossi dalla risacca del mare. Svoltò a sinistra dopo il giardino e lei era lì, indossava una gonna colorata, il sole tingeva di oro i suoi capelli e nei suoi occhi si potevano leggere le stesse speranze che erano in lui quando aveva deciso di affrontare quel viaggio. --------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Maria Scinto Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale. L'ombra dei platani che fiancheggiavano il viale in due lunghe file la investì con un refrigerio immediato, dopo un attimo ritornò a respirare normalmente. Chiara era stanca, non era più giovane e quel caldo opprimente le toglieva le forze. Era anche il peso di quel trolley che si trascinava dietro a pesarle sulle braccia e sul cuore. Una panchina accolse la sua stanchezza, ci voleva ancora tanto tempo prima che sua figlia Marta tornasse a casa, prima che potesse vederla e cercare sul suo viso il sorriso che desiderava con tutte le sue forze. Ancora un viaggio, ancora un paese lontano e diverso. Su quanti aerei e su quanti treni era salita per ritrovare un pezzo della sua famiglia, tutta dispersa nel mondo. Quante volte era tornata con uno scampolo di affetto e un altro ricordo da infilare nel trolley. Ricordava le parole di sua madre- Che fissazione questa smania di andare lontano da casa- Sua madre che era attaccata alla sua casa come una cozza allo scoglio e che nella sua casa c'era morta. Era suo il nome che pronunciava nell'ultimo giorno di vita, mentre il cancro se la stava portando via, disfacendo il suo corpo senza pietà. L'invasore implacabile che aveva portato via a Chiara anche il padre, un fratello e l'amica di una vita. E in quel trolley c'erano tutti. Papà che le abbracciava con forza le gambe prima di scivolare nel coma. Il fratello che le diceva – Ma sei una fata- sorridendole mentre vegliava al suo fianco. Ma nel trolley c'erano anche i primi vagiti e i sorrisi delle sue bambine, la grande mano del suo compagno che la guidava in strada e nella vita, il colore del mare di Rodi, l'isola che le aveva rubato il cuore, gli sguardi di chi le voleva bene, i profumi della primavera. Anche lei aveva incontrato il mostro brutale, ma per ora era stata risparmiata. Si era allontanata da casa e da tutti, chiusa nel suo sordo rancore e nella sua abissale e oscura paura, non voleva che gli altri la vedessero distruggersi senza poter far nulla. E i suoi non glielo avevano perdonato, non avevano capito. Marta era stata la più dura, ma ora lei sapeva che aveva bisogno di loro. Era l'ora: bussò alla porta e aspettò col cuore colmo d'angoscia. Marta la guardò e il viso le si illuminò di un sorriso pieno d'amore. ------------------------------------------------------------------------------------------------------------ Mauro Valtolina Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale. Chiara, l’infermiera preferita, lo condusse nella sala mensa della clinica, contro la sua volontà, e gli tenne compagnia sino a che Roberto, il fisioterapista, lo trasferì al primo piano, in camera, bypassando la mezzora degli esercizi di riabilitazione.-Mauro, la tua borsa è lì praticamente pronta. Vuoi dare un’occhiata? -No. Non c’è bisogno. Non mi interessa. -OK. Ne riparleremo domattina, quando ti sveglierò alle 5.-Ma tu non lavori domani! -Non ti lascio. E’ già organizzato. Ti porterò fino a dentro l’aereo. -Vorrei dirti che me ne frega. Invece ti ringrazio: non dovrò sopportare le inutili chiacchiere del personale della Delta. Il decollo lo riportò ai ricordi degli ultimi sei mesi, alle aspettative, le paure e speranze. Non esitò a prendere il primo sonnifero. Dopo 23 ore, 15 con la correzione di fuso orario, Mauro atterrò nell’aria “acquosa” del Texas, il pilota aveva annunciato 93 °F. Dopo i controlli, attraversando lo scorrevole, la testa gli si svuotò completamente. Durante il volo aveva rivissuto il recente passato: ritrovare Kate all’università, un ritorno dopo oltre un anno, i colloqui su skype a tre, con Lily, la sua migliore amica, i colloqui con Lily, le mail, l’attesa di Lily, l’arrivo in Italia di Lily con sua figlia Erika di 9 anni; l’amore che aveva provato subito e il fuoco che li aveva uniti dopo l’incontro; sposarsi in Italia o negli States? Vada per Santa Margherita. La tristezza di Kate. Lo schianto durante il viaggio verso la Riviera, con Kate, gelosa, alla guida. Lily sbalzata fuori, Kate morta, Erika in coma, Mauro sulle rotelle. Ovviamente non aveva più voglie né speranze. E adesso gli occhi di Lily, umidi, verdi, sereni, chiamanti; le loro mani che si intrecciano, si stringono. –Mi hai fatto il regalo: ti ho scritto di venire ed eccoti qui; ti ho detto che avrei voluto ricominciare, ti ho pregato di condividere le mie speranze e mi hai creduto! –Forse; e adesso che vedo un sorriso nei tuoi occhi …. –Meriti un aggiornamento: Erika, dopo il coma, sta migliorando, i medici sono ottimisti  …. io mi sento fiduciosa; la data per la tua operazione è stata fissata …. –Non merito tutto questo; io credo di essere il colpevole di quella discussione in auto. Sono venuto per rivederti, toccarti, scusarmi, confermare che quello che c’era tra noi non si spegnerà mai in me; però sono un pesante rottame, non so se potrò dare ancora qualcosa. Solo dopo che ti ho finalmente risentita non ce l’ho fatta a restare nell’altro mondo. Grazie; niente ti ferma. – Prendi nota Mauro: noi ci sposeremo qui un giorno, quel giorno sarà prima dell’operazione e non mi lascerai vedova per la seconda volta. Non mi ringraziare; tu solo sai che io sono l’unica colpevole; ma sento il tuo amore e se accetterai anche Erika in qualunque condizione …… –Erika è mia figlia ora. Proviamo, insieme. -------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Marco Moretti Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale. Il cellulare danzava nella giacca: sarebbe stata puntuale, una vita di precisione, contratti in zone calde e  paesi emergenti.  Il sole, sulla campagna da cui era partita, rendeva pesante il trolley scuro e i ricordi. Un bagaglio che invecchiava con lei,  la carriera adatta a pochi uomini, vivere in solitaria, lasciandolo  a casa: dal primo incarico venti anni prima, al nome nel settore. Sussurrato, evocato, temuto dai concorrenti. Tutto cambia, non la strada sterrata dal paese alla tenuta:  per chi parte, per chi torna. La costante di farla a piedi: scivolosa con la pioggia, arida con il bel tempo. Inizio e fine impegnativi: partenza e termine del viaggio, faceva caldo allora e oggi si suda. Un’estate torrida e un autunno troppo mite: ricorda la bandiera dello start, la fuga da recinzioni aperte su chilometri di falsa libertà. Una smorfia di fatica al pensiero del ritorno, l'ultima grana da risolvere, dove tutto iniziò: il luogo in cui ricevere lo sguardo, l’abbraccio di chi la aspetta. Venti anni, una vita, un percorso. I ricordi mutano con il tempo: dapprima su carta, foto  bianco-nero, lenzuola  d’albergo. Strade e volti, ristoranti e teatri, istantanee di vite che incrociava e cambiava; grazie al  lavoro, per colpa del suo lavoro. Oggi tecnologia e software: e-mail, google-maps e social regalano suggerimenti, aiutano per contatti e location. Il giorno migliore, il momento adatto: guadagni a sei cifre, concorrenza agguerrita e attrezzata. È vitale restare al passo con i tempi, correre più veloci delle lancette: essere una professionista affidabile. Rimpianti? No. Qualche rimorso? Neanche aveva il tempo; forse una traccia di nostalgia per gli esordi.  Una cartina, articoli di giornale, dati del fisco, compagni di università, un punto vulnerabile. Concludere, aggiornare il curriculum, attendere l’incarico successivo. Conto in Svizzera, la firma che tutti conoscono. Poi la professione 3.0, precisione al millimetro, messa a fuoco di contromisure e cautele, l’elusione di precauzioni altrui. E sentirsi vicino a lui, a casa, con lettere e telefonate, rare visite, regali preziosi; poi mail e videochiamate. L’avrebbe rivisto al capolinea di una circolare presa grazie al marito. La molla della carriera che finirà oggi: il primo  omicidio, rabbia senza profitto. Ha ricevuto le istruzioni dell’ultimo bersaglio. Deve lasciare spazio a nuove leve: sarà  una donna ricca,  senza lavorare; o forse  non ti lasciano andare così facilmente. Per cui, meglio finirla così. Ecco la casa a due piani: giallastra, le imposte socchiuse, un cane, il sole. Il rumore è secco, il colpo quasi gentile: le strappa solo  un gemito di tosse. Il guaito del cane la raggiunge a terra, mentre il freddo gela il sudore. Fissa le rotelle silenziose, sorride e lascia andare tutto: forze, ricordi, sangue. Se ne va   con la compagnia del primo rimpianto, lo sguardo che  voleva incontrare. ---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Nadia Carì "L'inizio di un cammino" Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale.  “Sono incinta, ho fatto il test tre volte. Non ci sono dubbi.” Fabrizio, era l’ultima cosa che si sarebbe aspettato di sentirsi dire da Anita. Lei era sposata, avevano una relazione da circa un anno, pensavano di esserci stati attenti. In certe situazioni, queste cose NON DEVONO accadere! Ma era successo. Il matrimonio tra Anita e Duccio era logoro e lei aveva trovato in Fabrizio l’uomo dolce e comprensivo che le mancava. Ora era incinta, Duccio voleva separarsi da tempo e lei aveva un amante: il padre del suo bambino… Fabrizio e Anita si sposarono tre anni dopo la nascita di Diego, ottenuta la sentenza di annullamento del matrimonio con Duccio. Lei non sopportava di dover divorziare. Aveva preteso l’annullamento dalla Sacra Rota. Lui accettò tutto: nonostante la reticenza di lei, in quei tre anni di attesa, a convivere; nonostante non avesse trovato opportuno che lui riconoscesse il bambino come proprio; e nonostante lui, alla fine, avesse anche scoperto il perché: l’esame del DNA, fatto quasi per sfidare chi dubitava di quella paternità, aveva dichiarato inequivocabilmente che Diego fosse, in realtà,  figlio di Duccio e non  suo: Anita era incinta, Duccio voleva separarsi da tempo e lei aveva un amante: un padre, perfetto e presente, per il suo bambino… Fu proprio il matrimonio a mettere a soqquadro tutto, in lui, e da quel momento si forgiò una corazza impermeabile ai sentimenti: “Ti amo” non appartenne più al suo vocabolario! Nicole entrò nella sua vita come un arcobaleno: colori, sole e aria fresca. Una boccata di ossigeno. Ti amo. E giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, anno dopo anno, si trovarono senza quasi rendersene conto a osservare la costruzione del loro amore: “guardarla salire, come un grattacielo di cento piani o come un girasole. E ad ogni piano scoprire un sorriso per ogni inverno da passare; ad ogni piano un Paradiso da consumare”. Per 15 anni. Un amore fatto di sotterfugi, di fughe, di passione, ma anche di chiacchierate, di spensieratezza, e di tanti sensi di colpa, per Fabrizio. La felicità che si faceva senso di colpa dopo ogni incontro, dopo ogni viaggio. Quante volte, lui, nell’eterna tentazione che lo prendeva a tratti, di lasciare, per Nicole, quel mare di ipocrisia, si domandò se fosse giusto sentirsi in colpa. E la risposta la trovò lì, su quella barella di cui percepiva il rumore delle rotelle sulla ghiaia del giardino di casa, mentre lo trasportava d’urgenza incontro al suo destino, con trent’anni di vita a passargli davanti agli occhi, che si riavvolgevano a ritroso come il rewind di una macchina da presa. Il viaggio, pensò ancora. Un lungo viaggio, dove il carico era quello delle speranze, oltre quello dei ricordi: non sapeva se e dove sarebbe arrivato e quale sguardo avrebbe incontrato al suo arrivo. Ma a un tratto fu certo di una cosa: che era quello di Nicole lo sguardo che sperava di incontrare al suo arrivo. --------------------------------------------------------------------------------------------------- Patrizia Muraglia Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale. Non esisteva, purtroppo, una meta a cui arrivare, non esisteva un punto di arrivo ed i punti di partenza si erano sfaldati da tempo sotto le pressioni delle speranze, delle opportunità colte al volo, delle ore vissute. Non che avesse una grande importanza: alla fine i giorni, gli anni e gli amori vissuti erano "casseri a perdere". Sono, casseri a perdere. Si sarebbe sentita così  se avesse davvero intrapreso quella strada, se davvero avesse chiuso Netflix sull'ultima puntata dell'ennesima serie che stava sostituendo la vita reale, si fosse alzata dal letto e si fosse incamminata verso casa sua? Facile fantasticare ed elaborare cammini vissuti solo nella mente. Mancava la voglia, mancava lo stimolo e la fantasia. Seduta sul bordo del letto vide con gli occhi della mente la svolta al fondo del viale, ma decise che era più facile così. Chiudere con le vecchie immote ed inerti inquietudini e sostituire i rivoli di sudore di una noiosa salita con i rivoli di vapore lasciati sullo specchio mentre l'acqua calda riempiva la vasca da bagno. --------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Paola Sostegni Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale. La luce filtrava attraverso gli alberi e una lieve brezza accarezzava il volto sudato, mentre arrancava con il trolley che rimbalzava sul marciapiede sconnesso., “La mia vita è come un racconto di cui ancora non conosco il finale” pensò. “All’improvviso ecco, il cinema; era lo stesso, ma diverso, come rimpicciolito. Il cinema dove si erano dati il primo bacio, il primo di molti. “Amanda” pensò. “come ti amavo, come amavo il tuo viso, i tuoi gesti, la tua quieta bellezza, eravamo una cosa sola; “Abbiamo scoperto noi stessi uno nell’altra”, dicevamo. Ora e per sempre. Ma nonostante la loro gioia di amarsi, e la forza del loro sentimento, il destino aspettava. Quella sera aveva bevuto, e molto, era in partenza per Londra per il tirocinio di chirurgia e voleva disperatamente l’oblio. Non voleva lasciarla, ma lei abbracciandolo diceva; “Ora e per sempre”. La curva la conosceva, ma pioveva, i fari abbaglianti, poi il nulla. Al risveglio non voleva credere che non fosse più con lui. Non avevano potuto salvarla, ma avevano salvato quella parte di lei che non aveva voluto svelargli, lasciandolo libero di partire. La bambina era piccolissima. La guardava nell’incubatrice della nursery, incapace di avvicinarsi anche di un solo passo. Avrebbe voluto prenderla in braccio, amarla, ma riusciva solo a pensare che lei non c’era più. Avevano dovuto fare una scelta. Ma lui non voleva accettarla, e così era fuggito senza voltarsi indietro. Dopo Londra, Bosnia, Sudan, Haiti, Pakistan cercando di dimenticare, di guarire, come cercava di guarire i bambini che non vedevano, malati di cuore, colpiti dal cancro: lavorando giorno e notte con l’equipe medica di cui faceva parte, girando il mondo, ma sempre nel cuore, il viso di quella bimba nell’incubatrice. Ora aveva 27 anni e sapeva che era medico come lui. Era tornato sui suoi passi, perché voleva chiederle perdono. Nel trolley c’erano tutte le lettere che le aveva scritto in quegli anni, tutte tranne una… l’ultima, quella che invece aveva spedito. Poi era partito senza aspettare risposta; aveva paura. Spinse la porta ed entrò nell’atrio, al bancone sedeva una giovane infermiera che gli sorrise: “Desidera?” chiese. “La dottoressa Manfredi per favore” rispose, ma all’improvviso sentì una mano sulla spalla e la voce di sua figlia che diceva “Ciao papà”. ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------ Franco sostegni Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale. La casa era come la ricordava, grigia e un po' triste. Passò il portone, entrò; là, di fronte c’era il salone e, attorno a un lungo tavolo, diverse persone che non riusciva a distinguere, accecato dalla luce di una finestra. «il signor Carli, penso» disse una voce «sono il notaio Anselmi, aspettavamo solo lei. Si sieda, prego». Egli obbedì volentieri, perché era terribilmente stanco. Degli altri presenti nessuno lo aveva salutato e non riusciva a capire chi fossero. «Bene». Ora lui distingueva meglio il notaio che proseguì: «il testamento del compianto dottor Carli consiste in una sola clausola: “Il giorno ecc. ecc. nel pieno possesso ecc. ecc. lascio ogni mio avere cioè la casa in cui abito con quanto in essa contenuto, all’Istituto per la cura degli animali in via Roma”. C’è poi una lettera per lei, signor Carli; eccola». Un mormorio indistinto, punteggiato da esclamazioni trattenute aleggiò per la sala; erano palpabili la delusione, la rabbia, la voglia di andarsene. Subito. Egli prese la lettera, estraneo a tutto quello che gli stava intorno. “… e, quindi, carissimo figlio mio, ho deciso di lasciare a te, che non ho potuto più riabbracciare da quel giorno così lontano e così triste, tutto quello che ho guadagnato con il lavoro di questi anni. Andando alla banca sul Corso, chiedi del direttore, presentati a lui con questa lettera (è importante!) e ti auguro tanta fortuna per il tuo futuro. Un abbraccio. Papà” Era stanco, provato dal viaggio e dal caldo, ma capiva di dover fare presto, prima di possibili azioni da parte di qualcuno insoddisfatto. Si alzò dalla panchina e si avviò. Camminò verso il Corso, attraversò la strada; poi volle rileggere il punto della lettera in cui si parlava della banca. Infilò la mano in tasca: niente. Nell’altra tasca: niente. Nelle tasche del trolley: neppure lì. Ma dove, diavolo, era finita? Cercò con affanno crescente, mentre un groppo gli saliva alla gola: niente. Allora ripercorse a ritroso, ansando, tutta la strada già fatta, guardando dappertutto fino alla panchina. Ma… niente. Ma dov’era finita quella lettera?! Gli venne da piangere; poi, attraverso le lacrime, la vide: era nella fontana, dove galleggiava trasportata lì dal leggero vento che si era levato da poco. La tirò su: un foglio di carta fradicio con qualche taccia di inchiostro blu. ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Federica De Michele Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale. Ma prima diede un ultimo sguardo alla sua macchina, blu come la bici di suo nonno che da ragazzo usava per andare proprio per quella strada. Si ricordava ancora con chiarezza l’agitazione mista a desiderio che gli ribolliva nello stomaco ogni volta che visitava la bella Caterina. I capelli biondi sciolti, le labbra così rosse da non sembrare vere e quegli occhi… ah che occhi aveva Caterina! Grigio tempesta, così erano sempre sembrati a Matteo. Erano passati sei anni dall’ultima volta che aveva visto la sua amata Caterina. Lui si era trasferito a Berlino per lavoro e lei, lei aveva deciso di rimanere lì, nel paesino della loro infanzia. Non era voluta venire con lui, ma in effetti Caterina non era una ragazza da città. A lei piacevano i vestitini prendisole e i sandali, le piaceva conoscere il nome di tutti i passanti e, anche se non l’avrebbe mai ammesso, le piaceva che loro conoscessero il suo. Matteo non era l’unico ad amare Caterina, in fondo bisognava essere folli per non desiderare il tocco di quella pelle ambrata. Posò il trolley, pieno di doni di scuse dalla Germania, vicino al leone di pietra su cui giocavano sempre da bambini, quante volte avevano litigato per decidere chi dovesse salirci per primo. Gli tornò alla mente l’immagine della medesima statua ricoperta di sangue, quel giorno c’era sangue ovunque. Povera Caterina. Era ancora difficile accettare che la loro ultima conversazione fosse stata una litigata, se solo fosse andata a Berlino con lui, si ripeteva continuamente. L’avrebbe protetta, salvata. Ma non andò così. Matteo, guardando la porta d’ingresso della grande casa gialla, si ricordò di quando quella stessa porta, spalancata con ironia, mostrava la dannata vista del cadavere di Caterina. La gola squarciata, le braccia piene di lividi violacei. Povera Caterina. Chissà chi l’aveva ridotta in quello stato, si chiedevano tutti. Se lo chiedevano ancora, a distanza di sei anni, perché nessuno aveva catturato l’assassino della giovane donna dai capelli biondi e gli occhi color tempesta. E Matteo per sei anni non si era dato pace, il rimorso lo lacerava dall’interno, come essere sul punto di morire costantemente senza riuscirci mai. Se solo quel giorno avesse insistito un po’ di più, magari Caterina sarebbe venuta con lui, magari quel pomeriggio d’estate avrebbe insegnato ad un piccolo bambino dai capelli biondi ad andare in bicicletta proprio come faceva lui. Ma Caterina, Matteo, non l’aveva mai amato. Cos’altro avrebbe potuto fare il giovane se non arrendersi alla triste realtà? Questo però non cancellava l’opprimente senso di colpa. Per quello era lì, nella vecchia casa di Caterina, voleva parlare coi genitori di lei, rivelargli la verità. L’avrebbero perdonato, ne era certo, in fondo non era stata colpa sua. Salì i tre gradini in marmo bianco e suonò il campanello aspettando che una signora dagli occhi di tempesta venisse ad aprirli. Avrebbero capito, si ripeté. Cos’altro avrebbe dovuto fare se non uccidere Caterina? -------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Nicolò Granone "Ti va una birra al tramonto?" Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale. Marco era un giovane sognatore, con la passione per i film senza un lieto fine e la fantastica capacità di innamorarsi della donna sbagliata solo bevendoci una birra al tramonto. La sua storia con Francesca era ormai agli sgoccioli. Non si poteva più tornare indietro. In quel pomeriggio d’agosto era arrivato il momento dei saluti. Forse però esisteva una soluzione, o meglio aveva in mente un piano. Dopo aver girato sulla destra, attraversò l’incrocio provando a blaterare improbabili scuse. “Mi dispiace, cambierò te lo prometto” era quella che preferiva. L’ultima volta i due giovani fidanzati si erano detti queste parole, prima di chiudersi in un abbraccio che non aveva bisogno di altre spiegazioni. All’improvviso questo flusso di coscienza fu interrotto. Marco era sdraiato a terra, con lo skate caduto sul ciglio della strada, in bilico tra il guard rail e la macchina che stava per superare. Il giovane era svenuto, con il cuore spezzato dall’ennesima delusione amorosa e con un polso girato all’insù, ormai troppo leggero per reggere quel peso. Il semaforo era scattato un secondo in anticipo, mentre una madre,  di quelle troppo apprensive, stava accelerando per andare a prendere la figlia, felice per il suo primo appuntamento. L’ambulanza arrivò dopo qualche minuto, caricò Marco e partì velocemente senza accendere immediatamente le sirene, quasi come se non si volesse disturbare la gioia dei numerosi turisti accorsi in città. Il suo telefono continuava ad illuminarsi. Messaggi e chiamate che difficilmente avrebbero ottenuto un sì come risposta. Erano circa le 17:30 quando riaprì gli occhi, prima di richiuderli in una smorfia di dolore. Era confuso, spaesato, sdraiato in un letto freddo con le coperte buttate alla rinfusa. Non riusciva a capire dove si trovasse, né per quale motivo non fosse dove doveva essere. Cos’era andato storto? All’improvviso la porta si aprì e la stanza fu invasa dal profumo di vaniglia. Francesca si lanciò con gli occhi pieni di lacrime sul corpo del povero Marco, scoppiando in una risata isterica. Il ragazzo aveva riconosciuto quell’odore, ma non riusciva a collegarlo al viso. Confuso dagli antidolorifici e dallo spavento disse solamente: “Ciao, sei molto carina. Ti va se quando uscirò di qui andiamo a bere una birra al tramonto?” ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Elena Giordano Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale. L’ospedale era lì. Immenso. Certo che posizionarlo sulla sommità di una collinetta… abbiamo fantasia da vendere, pensò, cari architetti. Trrr, trrr, il rumore delle rotelle del trolley iniziava a farsi un po’ troppo pronunciato. Irritante. La malattia si era presentata due anni prima. Qualche fastidio alle articolazioni, niente di che, poi dolori sempre più forti. Una mattina si era ritrovato completamente “ingessato”, bloccato; uno stoccafisso. Così era iniziato il suo viaggio, un po’ fisico, un po’ metafisico e anche un po’ metaforico: nessuna località turistica, bensì visite, medici, nuove strutture, grandi luminari, piccoli luminari. Buchi e buchetti con aghi grandi e piccini. Pensieri sempre più foschi. Il corpo in trasformazione, ma niente bruco che diventa farfalla, bensì farfalla che involve in bruco… e ringraziare che per il momento non aveva bisogno della carrozzina per spostarsi. Trrr, trrr. Il trolley conteneva, oltre a un cambio, le cartelline con gli esami e la storia clinica dell’ultimo periodo, “Perché si sa, dagli specialisti occorre presentarsi con tutto in ordine…”, così gli avevano suggerito. E lui si era adeguato, senza porsi troppe domande. Ora era lì: il tempo di pagare l’obolo astronomico e avrebbe finalmente incontrato – dopo 800 km di treno, quattro bottigliette d’acqua, due taxi, un insulto “E levati dalla strada, imbranato!” – il medico che avrebbe risposto al suo semplice quesito: “Guarirò, prima o poi?”. - La visita era durata 20 minuti. Il responso molto chiaro e zuccheroso. Ovviamente tossico: “Sa com’è, deve capire, la medicina, la ricerca, la qualità della vita, vedrà, magari, non si scoraggi, si faccia seguire anche a livello psicologico, non sarà venuto da solo, vero?…”. Aveva richiuso il trolley, riposto – questa volta alla rinfusa – le cartelline e ripreso la strada dell’andata. Prima il viale, poi la discesa. Ghiaia, caldo, voglia di una doccia. Trrr, trrr. Fece mente locale. I ricordi? Quelli belli si erano fermati due anni prima. Le speranze? Da qualche minuto stavano “a zero”, come dicevano in tv. La medicina lo aveva tradito (anche se… mica è mai stata mia moglie… vabbè…). Trrr, trrr. Si guardò la punta delle scarpe: pure loro avevano bisogno di essere “accudite”, come gli aveva precisato lo specialista. Oppure buttate nella spazzatura direttamente, aveva subito pensato lui, insieme al loro padrone. Che sarei io. Ma io non so che fare. Per cui non faccio niente. - Dopo poche settimane, Niccolò e la sua sclerosi multipla vennero ricoverati in una struttura per lungodegenti non autosufficienti. Di fianco al suo letto sempre il trolley rumoroso, oltre alla carrozzina e agli ausili, ormai essenziali per la sua “buona qualità della vita”.   Decise, dopo quel pomeriggio caldo, che non avrebbe più parlato con nessuno della malattia. Accettò il suo diventar bruco e ne fece quasi motivo di vanto, ripetendo solo agli infermieri e al personale della struttura che: “Il mondo non è solo dei sani. Ma nessuno se lo ricorda mai. Un vero peccato”. Trrr. Ttrrr. ----------------------------------------------------------------------------------------------------------- Abelarda 1954 Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale. Ormai solo pochi passi lo separavano dalla meta al tempo stesso sospirata e temuta. Desiderava sinceramente incontrare il padre, nonostante la certezza di non poter sostenere lo sguardo di quegli occhi franchi, leali… ma da chi altri avrebbe potuto andare? La villa appariva deserta, nonostante le persiane non del tutto accostate di un paio di finestre. Intravide dietro una di esse una sagoma informe, ma fu questione di un attimo: mentre cercava di distinguerla meglio, l’ombra svanì. Si trovò a sospettare che quanto aveva scorto fosse frutto delle sue speranze, peraltro ridotte a un filo dal pesante portone chiuso. Si asciugò il sudore del viso; gli sembrava che anche il sole sprezzasse il suo ardire. Avrebbe dovuto aspettarselo, la colpa era stata troppo grave per poter essere dimenticata. Si appoggiò pensieroso al vecchio trolley che gli aveva tenuto compagnia col rumore delle rotelle sulla ghiaia. In un istante, come in un incubo si trovò a rivivere le scene raccapriccianti di cui aveva scelto di essere parte, non succube degli amici, non semplice spettatore, ma attore sia pur di secondo piano. Vide gli occhi interrogativi traboccanti dapprima di stupore e poi di angoscia del senzatetto che avevano preso di mira per uno stupido gioco, vide le fiamme e le sentì ardere ineluttabili sulla pelle… o era il sole, sempre più incalzante in quella giornata torrida? Abbassò ancora gli occhi, sentendosi meschino, vergognandosi non tanto per il giudizio degli altri, di suo padre innanzitutto, o per il carcere seguito alla giusta condanna, quanto per i morsi purtroppo tardivi della sua coscienza. Si era illuso di poter tornare a casa e di trovare due braccia pronte ad accoglierlo nonostante tutto, sperava di leggere negli occhi del padre quel perdono che da solo non sapeva darsi. Non voleva trovare asilo nella villa, incontrato il padre se ne sarebbe subito andato, ma faceva assegnamento su un cuore capace di superare l’istintivo ribrezzo e continuare ad amarlo in silenzio, pur senza capire le ragioni di quanto era successo… d’altronde neanche lui le capiva, tali ragioni non facevano parte del suo bagaglio. D’un tratto il portone si aprì. L’uomo che ne uscì doveva aver sofferto molto, si capiva dal modo di camminare, come gravato da un peso; ma lo sguardo fermo, levato verso di lui, lo avvolgeva in un abbraccio. -------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Roberta Beneduce Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale. Joe vide una piccola casa abbandonata,dove decise di soggiornarci per un po’. Di questa casa si diceva che qualche anno fa abitava una bambina di nome Sofia che diventò un fantasma quando il suo padrino la avvelenò. L’obbiettivo del lungo viaggio di Joe era quello di ritrovare sua figlia. Entrato in questa casa la prima cosa che si notò era il quadro di tre bimbi,due dei quali si vedeva la faccia,di Sofia invece la faccia era stata come per magia cancellata.  A quel punto il fantasma decise di fargli qualche scherzo. La giornata passò velocemente e allo scoccare delle tre di notte, proprio come un orologio Sofia si presentò davanti la porta della stanza  dove dormiva Joe,e cominciò a sussurrargli all’orecchio “SEGUIMI,SEGUIMI”,incredulo decide di seguire il suono della voce e arrivò nel salotto,a quel punto il fantasma scomparve e all’uomo venne subito in mente che forse sua figlia si trovava in quel salotto e rimase tutta la notte a cercarla in quella grande stanza ma senza risultati. La seconda notte,sempre alle tre in punto,Sofia si presentò sul ciglio della porta e chiamò Joe,lui sempre convinto che fosse sua figlia passò un’altra  notte in bianco sempre senza aver trovato quel che cercava. La terza notte Sofia si mostrò davanti al letto e Joe decise di seguirla. Arrivati in soffitta il fantasma gli chiese come si chiamava sua figlia;lui non ricordava il nome di sua figlia ma si ricordava benissimo come era fatta,ricordava i suoi lunghi capelli dorati e le sue guance colorate piene di vita,era una bambina molto dolce che amava tantissimo il suo papà e amava tanto le storie che gli leggeva prima di andare a dormire. Il fantasma poi gli chiese come mai fosse scomparsa e Joe rispose,con una lacrima che gli rigava il viso,che  la colpa era sua. Era una pomeriggio d’inverno e la bimba insieme ai suoi amici  stava fuori a giocare con la neve, mentre Joe e sua moglie si trovavano davanti al camino a leggere un libro; la mamma aveva preparato un buonissima cioccolata calda e chiese a suo marito di chiamare la piccola e farla rientrare, ma dopo diversi minuti non c’era traccia della bambina. Passarono i giorni e della piccola ancora niente, nel frattempo la moglie di Joe si ammalò per la scomparsa della figlia e morì letteralmente di crepacuore.  Joe da quel momento cominciò ad avere i sensi di colpa e decise che l’unico modo per non averli era ritrovare sua figlia. Il fantasma sparì senza lasciar traccia e Joe iniziò a dar di matto e a mettere la casa  a soqquadro per trovare lo spirito di sua figlia ma di lei ancore una volta non c’era traccia. Amareggiato e distrutto decise di abbandonare la casa e di cercare altrove,dopo poco sentì una voce che gli dice di tornare indietro e seguì le indicazioni. Tornato allo stesso punto rimase senza parole alla vista di quello spettacolo,la casa era scomparsa e lui capì che era tutto frutto della sua immaginazione,poi si venne a sapere che la figlia non esisteva ed era cosi malato che di Joe rimase solo il ricordo. ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Carlo e Fabrizio Marchesano Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale. L’appuntamento con l’editore era per le 18. Lo aveva fissato qualche giorno prima non appena aveva maturato la decisione di pubblicare quella storia da troppo tempo dormiente nella sua mente. Forse perché la sua vena di scrivere non si era ancora mai accesa, forse perché non gli andava proprio di far scrivere la sua storia a qualcun altro. Comunque non era un problema. Quante volte l’editore gli aveva promesso che gli avrebbe regalato dei libri sull’argomento purché iniziasse  scrivere. Ecco perché si stava trascinando dietro quel trolley vuoto. Il suo cellulare iniziò a vibrare. Nemmeno il tempo di prenderlo che arrivò un'altro messaggio. Il primo chiedeva se andava tutto bene e l’altro confermava l’appuntamento in piazza della campana. Aveva già chiesto qualche informazione su come arrivare in quella piazza ed era rimasto piuttosto incuriosito dal fatto che, nel momento di salutarsi, tutti gli suggerivano di sbrigarsi se voleva arrivare in tempo alle sei! Ogni volta che chiedeva di quella piazza, tutti gli ricordavano anche l’ orario che doveva rispettare. Come se tutti sapessero del suo appuntamento! Arrivò nella piazza che non erano ancora le sei di sera. Si guardò in giro per cercare qualcuno con un trolley rosso come il suo, ma forse era arrivato in anticipo. Ne approfittò per fermarsi un attimo ad ammirare quel particolarissimo gruppo bronzeo al centro del quale quattro figure sorreggono una campana, quando quest'ultima emise un sonoro rintocco sorprendendolo, giacché aveva pensato che si trattasse di una raffigurazione e non di un vero strumento. D'istinto si voltò, e iniziò ad allontanarsi continuando a cercare qualcuno con un trolley rosso. Così facendo andò a sbattere contro la coppia che lo stava precedendo e che si era improvvisamente fermata. Nemmeno il tempo di scusarsi che accadde qualcosa di strano. Fu travolto dalla sensazione di essere immerso in un assordante silenzio. “Quanta fretta!” disse una voce alle sue spalle. Si voltò. Alla base del monumento sedeva un ragazzo di poco più di vent'anni, con tanto di elmetto, che indossava un'antiquata divisa militare color grigio-verde. Solo allora si accorse che a un lato della campana spiccava una figura vestita in modo simile. Si aggrappò all'unico pensiero razionale: forse si trattava di una rievocazione storica! “C'è una commemorazione?” domandò al giovane. “Tutti i giorni, Rintocchi  Memorie,” fu la enigmatica risposta. “Non credo di capire.” rispose “È il nome del monumento,” proseguì quello, “ realizzato per commemorare i caduti della Grande Guerra. Da allora la campana batte ventuno rintocchi tutti i giorni alle 18. E tutti, pedoni e veicoli, si fermano un minuto a ricordare chi ha sacrificato la propria vita affinché altri potessero la loro.” “E perché ventuno rintocchi?”. “Uno per ogni lettera dell'alfabeto ricordando le iniziali dei nomi dei Caduti. Il mio rintocco dovrebbe essere il settimo, ma tutti mi chiamano Bepi e quindi io vengo qui sempre al secondo. Ora però devo andare, ma tu fermati ancora per un minuto. Ti farà sentire bene!” Detto questo il giovane si alzò, e quando gli diede la schiena vide i fori dei proiettili e le macchie di sangue sulla divisa. Prima che potesse profferire parola, passò dietro al monumento e scomparve dalla vista. In quel momento la campana suonò il terzo rintocco. Il tempo riprese a scorrere, il mondo tornò a essere carico di suoni, anche se tutti coloro che lo circondavano, a piedi o in macchina, continuarono a rimanere fermi fino al ventunesimo rintocco, così come fece lui. Non capiva bene cosa gli era successo, ma su una cosa quel giovane soldato aveva avuto ragione: si sentiva bene. E improvvisamente si ritrovò a riflettere sul fatto che il settimo rintocco corrisponde alla lettera G … G come Giuseppe … che tutti chiamavano Bepi! Un rumore sgranato di rotelle alle sue spalle lo distolse dai suoi pensieri. Poi qualcuno lo chiamò! Si voltò, e la conseguenza fu inaspettata perché in quel momento conobbe la donna che sarebbe diventata sua moglie. Ma questa è un'altra storia! ---------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Momo Castiglioni Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale. La strada che si presentò ai suoi occhi era deserta. Dopo qualche secondo però, il silenzio fu rotto da una moto. Il guidatore, giunto vicino all’uomo, gli fece un cenno, fermò il veicolo e chiese: «Scusi, sa come arrivare in aeroporto?» «Sì, certo. Allora… prima di tut-». Uno sparo. Queste furono le sue ultime parole. Finì a terra, gli occhi aperti quasi volessero gridare. Le due bambole che portava in mano caddero. «Questa è la conclusione del tuo viaggio» sentenziò il misterioso omicida prima di andarsene. «Finalmente sei arrivato». L’assassino spalancò la porta di un’antica chiesa abbandonata, la quale si trovava in mezzo ad un bosco in cui le persone entravano di rado. «Scusa il ritardo, ho controllato la zona per accertarmi che non ci fosse nessuno nei dintorni» spiegò raggiungendo il suo interlocutore, un giovane sui vent’anni. L’omicida era vestito in maniera sobria, tranne che per la maschera chirurgica sul viso, gli occhiali da sole, il berretto nero e i guanti in lattice. «Su, dammi i soldi e le informazioni sui prossimi obiettivi». «Ok… ecco qua. In questa valigia c’è tutto quello che hai richiesto. Grazie ancora, hai svolto davvero un lavoro magnifico» disse ponendogliela. La prese con la mano destra, mentre con la sinistra tirò fuori la pistola e senza alcuna esitazione sparò all’uomo. «Per…ché?» domandò accasciandosi al suolo e tenendosi lo stomaco. «Sai, di solito miro alla testa, ti ho colpito lì proprio per darti la possibilità di chiedermi ciò. La risposta è molto semplice: perché mi hai ingaggiato. Io uccido tutti quelli che si macchiano di crimini gravi. I peggiori però per me sono individui come il tizio che volevi eliminare, così come questi altri che mi hai chiesto di far fuori. Gente acclamata dall’opinione pubblica come eroi, anche se in realtà non lo sono. Vero, tuo padre fu uno dei peggiori dittatori della storia, ma quando fu catturato era disarmato e lo uccisero senza neanche fare un processo, per di più esponendo il suo cadavere in quella maniera vergognosa. Dei veri eroi non farebbero mai nulla di simile, non sono altro che demoni. Esattamente come lo sei anche tu. A questo punto però ti chiederai: io quindi che cosa sono? Se voi siete dei meri demoni, allora io…» Si incamminò verso l’uscita. «…sono il dimonio». L’istante successivo il giovane spirò. -------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Mauro Valtolina Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale. Nel trolley non ci sono abiti, ma è molto pesante: la carta, si sa. E’ pieno di libri; quelli non li ha lasciati; li porterà poco più su, nella villetta che suo fratello Paolo gli ha messo a disposizione per una settimana. Lui glie la ha lasciata per quindici anni. Non poteva prevedere i tempi esatti, ma l’intenzione è quella di utilizzarla una sola notte. All’alba giù verso la stazione delle corriere, poi il treno verso la città e quindi il treno più veloce per arrivare prima di notte su alla cittadina di confine, alla fine del viaggio e di questa storia. Domani non patirà il caldo, ma oggi ha un bisogno disperato di una doccia. La casa è perfetta. Paolo non ha modificato quasi nulla da quando lui è stato portato via. E qui non prova nessuna emozione. Sta per asciugarsi, ma torna sotto l’acqua; ha la sensazione che l’odore della sua vita precedente non sia cancellato, che forse non scomparirà mai. Il treno ha lasciato la città da qualche minuto. Lui fa finta di dormire, non vuole contatti con le due persone troppo vicine. Può pensare al momento dell’arrivo, desiderio e angoscia, sarà bianco o nero, essere o non essere. Come in quella sera, quando, udito il suono prolungato del campanello, prese dal tavolo la pistola, fece i dieci passi verso la porta, si trovò davanti il marito di Anna che alzava il braccio brandendo una mazza, e sollevò anche lui il braccio, sparandogli un colpo nella fronte. Avrebbe voluto ucciderlo lentamente, con più colpi, ma come un automa decise così. Aveva amato Anna sin dal liceo, pensava di essere corrisposto, ma la vita di lei aveva seguito (tante le ragioni?) un altro corso e si era sposata molto giovane con quel tipo. Aveva provato a rimanerle “vicino” in maniera discreta, facendoselo bastare. Quando, dopo pochi anni di matrimonio, ebbe l’evidenza che il marito la torturava in ogni senso, che lei stava per soccombere, decise di intervenire creando quello scontro, che si era concluso davanti alla sua porta. Dopo la condanna, con Anna nessun contatto, ma aveva usato il tempo per leggere e seguire la vita di lei, giorno per giorno se possibile. Ora, a 24 ore dalla sua liberazione, faceva quel viaggio sempre pensato, per vedere se aveva capito quei due sguardi scambiati durante il processo oppure si era fatto illudere dalla sua passione, nel qual caso ……….. Il trolley era leggero, niente ascensore, solo tre rampe di scale, ma il cuore pulsava troppo forte. Pochi secondi dopo il campanello Anna apre: una breve sorpresa, un attimo di espressione triste e poi un sorriso, un sorriso che si espandeva agli occhi, al profondo ……..e dentro di lui la felicità, la soddisfazione di aver creato quel momento. Anna non si sottrasse al suo abbraccio. Presto lo scostò e lo invitò alla cena che stava preparando. Parlarono un po’ del viaggio, che lei mai aveva fatto al ritorno, un po’ della sua vita di lavoro finché lei lo invitò a dormire in casa, ma rispettando il suo sconcerto, le sue grandi difficoltà, rimandando al giorno dopo qualsiasi considerazione, qualunque cosa. Solo a notte inoltrata il sonno lo vinse. Era eccitato, confuso, anche molto preoccupato. Ma si addormentò. Lo risvegliò un rumore, come un respiro e il tocco di una pantofola sul tappeto. Fece in tempo ad aprire gli occhi, vedere il riflesso del coltello che si abbatteva su di lui. Riuscì ad afferrare il braccio. Nella debolissima luce i suoi occhi entrarono in quelli di lei ricevendo un odio infinito. Allora tutto inutile, allora sbagliato! Allora girò il braccio di lei, lo spinse verso il suo addome, lasciando che il lungo coltello da cucina penetrasse profondamente. All’alba chiamò i Carabinieri perché lo riportassero indietro. ----------------------------------------------------------------------------------------------------------- Giusi Barbarotto Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale. La rotella del passeggino si infilò profondamente in una crepa tra le lastre del marciapiede. Al sobbalzo seguì il verso che il bambino emetteva sempre quando si svegliava di soprassalto: non un pianto o un lamento, ma un suono gutturale, animalesco, in cui lei sentiva chiaramente stizza e , insieme, disprezzo. Non era possibile, si diceva tutte le volte. Fantasie, sensazioni distorte, certo. Ma tutte le volte il verso tornava, stizzoso e stizzito, e con lui quei due occhi enormi, che inghiottivano tutta la faccia. Due biglie nere, animate da una malvagità opaca che non si manifestava in nessun modo eppure c'era, acquattata dietro quelle pupille puntute. I serpenti devono guardare così, si diceva. E lei aveva un terrore folle per quelle bestiacce che sapevano acquattarsi e poi attaccare rapidissime. Era il solo verso di Dante che avesse mai imparato: "tra l'erba e' fior venìa la mala striscia". Quelle due parole le rotolavano sulla lingua, dandole un senso di carne fredda che scivola via. ma la mala striscia era lì, che la fissava tra i ricami del cuscino e le balze del lenzuolo di sangallo. Non piangeva. Non gridava. Non rideva. Apriva gli occhi con quel singulto che le si radicava in mente e poi serpeggiava dentro, senza poterlo scacciare. Sollevò con cautela il passeggino, riportando le ruote in asse. Gli occhi si richiusero subito, come una saracinesca azionata a distanza. Ce l'aveva fatta, anche quel piccolo intoppo era superato. L'aspettava.... Cosa l'aspettasse, in realtà, non sapeva dirlo, ma mettere il bambino nel passeggino, indossare giacca leggera e borsa, lasciando le chiavi di casa ben in vista sul tavolo della cucina, già questo era un inizio. Qualunque cosa l'aspettasse, era meglio di quel che lasciava. Come aveva potuto sopportare per mesi il tono persuasivo e la testa tentennante di sua madre, gli occhi estranei di suo marito, le frasi taglienti di suo fratello? Certo, aveva dovuto portare il bambino con sé, perché una brava madre lo era davvero, lo sapeva. Non aveva passato mesi cercando di imparare a ricamare, a sferruzzare? Sì, non c'era riuscita e aveva fatto una palla di bavaglini informi e golfini sghembi, cacciandola in fondo al bidone dell'immondizia, ma ci aveva provato, lo avevano visto tutti... Proseguiva, l'alone di sudore sempre più ampio sotto le ascelle, la maglietta appiccicata alla schiena. La strada era una gimcana, tra passanti distratti e buche, cercando di non far sobbalzare troppo il passeggino. A un tratto non si sentì più in grado di sopportare, si tolse la giacca e la poggiò nella rete portaoggetti sotto la culla. Quando si sollevò, gli occhi erano di nuovo spalancati e la fissavano come sempre, profondi e vuoti, ma colmi del male del mondo. Scostò il lenzuolo, sollevò il bambino, tuffando lo sguardo nel suo, per annullarsi in quelle iridi buie. Il gesto fu rapido, una parabola perfetta contro il muro, ancora e ancora e ancora. I passanti la guardavano appena, scostandosi un po'. E finalmente arrivò lui, con lo sguardo interrogativo e la fronte aggrottata dalla perplessità. Gli si slanciò addosso in un abbraccio definitivo, che sanciva la fine di tutto, sussurrandogli: "L'ho fatto per te, per noi". - Non si sa ancora niente? - No. Quando l'ho trovata non aveva documenti. Era in stato confusionale. Stava spaccando una bambola contro il muro. Poi mi ha farfugliato qualcosa, ma non ci ho capito niente. --------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Antonella Pittaluga Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale. Tutto iniziò quando finii l’università e conseguii lalaurea in medicina. Era il mio desiderio fino da bambino ,diventare un medico e potere aiutare gli altri. Avevo voglia di impegnarmi al massimo ed iniziai un tirocinio in ospedale continuando a studiare per specializzarmi in cardiochirurgia. Quella scelta non era a caso ; due anni prima persi mio padre ,che aveva soli cinquantasette anni. Era stato operato a Utrecht in Olanda da un medico italiano che era andato via dall’Italia perché per potere operare seriamente avrebbe dovuto seguire iter professionali solo nel ruolo di porta borse del Primario. L’intervento di mio padre prevedeva l’inserimento di sei bypass al  cuore. Era andato tutto bene e dal giorno della dimissione mio padre avrebbe vissuto ancora quattro mesi in buone condizioni . Fino a che improvvisamente fu ricoverato di urgenza e morì nella notte, dopo che i chirurghi fallirono nel tamponare uno sfaldamento aortico. Da quel momento mi impegnai per diventare un bravissimo cardiochirurgo. Dopo tre anni mi specializzai con il massimo dei voti ed ottenni una borsa di studio di un anno. Dopo un anno non ero ancora entrato in sala operatoria se non per affiancare il vice primario che di capacità ne aveva proprio poche, a mio avviso, di sicuro era il cognato di un politico al momento in auge. Più di una volta mi lasciò i ferri in mano a metà intervento per sparire con il telefonino fuori dalla sala, le prime volte ebbi paura di non farcela ma poi iniziai a pensare che era un’occasione per imparare ad operare ,avevo più occasioni e finalmente potevo esprimere il mio potenziale di chirurgo. Andò avanti così per più di un anno ed intanto avevo vinto un concorso per un posto a tempo determinato di due anni. Fino a che un giorno le cose si complicarono ed il paziente che mi affidò a metà dell’operazione non riuscì a superare l’intervento. I parenti fecero denuncia all’Ospedale ed il vice primario scaricò ingiustamente su di me tutte le responsabilità . La Direzione sanitaria diede ragione a lui e mi allontanarono dal Reparto. Fu una delusione profonda,mi rinchiusi in casa e non volli vedere nessuno per settimane. Stavo annegando nella depressione e nei sensi di colpa verso mio padre e la mia famiglia non accettavo quel fallimento. Passavo le giornate sul divano davanti alla televisione in stato abulico. Un pomeriggio mi capitò di seguire un programma che parlava del terremoto di Haiti del 2010 e delle conseguenze disastrose, come l’epidemia di colera ,in un paese che già aveva il primato di povertà. La guerra dei poveri stava portando ad una guerra civile. L’unico Ospedale  pediatrico stava per essere chiuso per mancanza di operatori tecnici e sanitari. Mi alzai dal divano ,riempii il trolley con poche cose eduscii di casa con una tranquillità insolita. Uscito dal portone una ventata calda mi avvolse e mi tolse il fiato. Svoltai l’angolo del viale e mi diressi a prendere un taxi per l’aeroporto: destinazione Haiti. --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Marta Puppo "Il vaso" Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale. Il vaso sul pilastro destro del cancello pesava circa centocinquanta chili. Nei centocinquanta chili il vaso di cemento, la terra, il magnifico cactus. Eppure era stato controllato e ricontrollato. La famiglia che la stava aspettando guardò attonita, come al rallentatore, la caduta inesorabile e definitiva. Un groviglio di ferraglia e umori umani sulla ghiaia. Una spianata. Non misurabile. Una folla. A perdita d’occhio. In lontananza un palazzo. Sospeso. Forse trasparente. Una scritta luminosa nel cielo LA RESURREZIONE DEI CORPI HA INIZIO THE RESURRECTION OF THE BODIES IS STARTING NOW La résurrection des corps commence maintenant احیای بدن اکنون شروع می شود ВОСКРЕСЕНИЕ ТЕЛ НАЧИНАЕТСЯ СЕЙЧАС Le gambe formicolano, sente di potersi alzare. La sedia a rotelle rotola via. Una figura magra e allampanata le si para davanti. Non ha una gamba. La mano tortura nervosa l’impugnatura della stampella. Aggiustano quello che non funzionava ma non ti dotano di nuove componenti. Un’infermiera indaffarata lo spinge via. Davanti a sé adesso un essere con grandi occhi, forse fatto solo di occhi, gli occhi di sua nonna. Avanza. Il viaggio è ancora lungo. No senta ma io non ci credo alla resurrezione dei corpi, sarebbe anche ingiusta. Sa che palle tutta l’eternità nella stessa forma? Gli occhi si fanno giganteschi. Un dubbio. Un tremore. Errore di classificazione. Un lampo e rieccomi. La ghiaia. Il sudore. L’agognata doccia della sera. Giro l’angolo del viale. SCIAK. Dolore. Urla. Gente che corre. Sempre più distante. Bianco. Pace. La vita che pulsa. Mi espando all’infinito. Sono l’universo. Sono un albero, una mucca, un fiorellino. No un momento e la storia dei corpi di prima? Non voglio assolutamente protestare perchè un vaso di cemento in testa due volte nel giro di un’ora mi è bastato. A chi stai parlando? No come a chi sto parlando? Vuol dire che ognuno crea il suo aldilà? Ognuno crea ogni cosa, al di là da cosa? Un vento si alza dal nulla. Turbina, mulinella. Voci. Presto accorrete. Chiama il 112. Ti prego rispondi. La mia famiglia al completo. Occhi di ansia. Commozione affetto. Sirene dell’ambulanza. Buio. Dalla nebbia del risveglio i visi commossi e felici. Dal profondo di lei una determinazione profonda: da adesso in poi solo sogni felici. ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Maria Teresa Cappiello (95 anni) Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale. Incontrai Maddalena e capii che era destino così. Lei mi guardò con tenerezza e mi chiese: ” Come stai? “ Risposi: ” Fa molto caldo, io sono in attesa di compagnia e la mia compagnia sei tu.” Lei mi rispose  di non preoccuparmi perché avrebbe spinto la carrozzella con vero piacere. Un senso di dolcezza mi pervase il cuore: ” perché è così buona Maddalena? Per  tirar su il mio morale o solo per aiutarmi ? non lo saprò mai.” C’era ancora un poco di dolce salita e insieme sarebbe stata più leggera. Mi accarezzò il viso ed io non avvertii più alcun disagio; l’aria era fresca e la nostra passeggiata diventata piacevole. Non dimenticherò mai la tenerezza del suo sguardo: era troppo cara Maddalena e non potei fare a meno di baciarle una mano. Continuammo il nostro cammino non sapendo bene dove ci avrebbe condotti: era bello il sentiero, anzi bellissimo!  Tutto era cambiato intorno a me: gli uccelli cinguettavano ed i rami di quegli alberi così belli, prima da me neanche notati, mi procuravano una dolce frescura. Maddalena aveva fatto il miracolo: tutto mi faceva pensare a un domani migliore, ad un avvenire gioioso. Dove saremmo arrivati, dove ci saremmo fermati, non so rispondere, proprio non so. Eppure il cuore parla per noi e autorizza speranze inaspettate: non avrei più dovuto combattere da solo perché Maddalena era con me. Il futuro non mi spaventa più: grazie Maddalena!  Il domani sarà mio con te, sarà nostro. ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------ Federica Boero "La valigia di Sef" Affrontò l’ultima parte della leggera salita a occhi bassi, ascoltando il rumore delle rotelle sulla ghiaia. Faceva caldo, e d’altra parte c’era da aspettarselo. Sentì un rivolo di sudore lungo la schiena e provò il tipico disagio di chi non avrebbe potuto mettersi sotto una doccia fino a sera. Il viaggio pensò. Un lungo viaggio, portando un sacco di cose con sé. Non indumenti o scarpe. Non guide turistiche, o libri da leggere. Il carico era quello dei ricordi, e delle speranze. I ricordi di quello che aveva fatto, che era successo, le speranze quelle che riponeva nello sguardo e nell’espressione di chi avrebbe incontrato al suo arrivo. Sospirò, e svoltò l’angolo del viale. Vide un cancello in ferro battuto e accanto ad esso un impiegato incravattato, seduto dietro un banchetto. Doveva essere quello il posto. Si avvicinò. «Buonasera», disse l'impiegato. «Metta il trolley sul nastro». Sef eseguì. Era molto pesante. «Nulla da dichiarare? Cellulare? Laptop? Liquidi?» «No». «Altro di compromettente?» «No, credo». L'impiegato sembrò contrariato: «Documenti e biglietto». Sef mise le mani in tasca, ma non trovò nulla. «Non li ho. Devo averli persi in mare. Non credevo servissero». «Quale Stato la farebbe entrare senza documenti?» Aveva ragione. Avrebbe dovuto tenerli ben stretti. «Chiederò al capo», disse l'impiegato. «Nel frattempo, se potesse controllare il suo bagaglio...» «Certo», rispose Sef. Faceva sempre più caldo. Aveva le orecchie bollenti e le mani tanto gonfie che faticava a muoverle. Prese la valigia e l'aprì, in disparte. Dentro c'era la sua infanzia, trascorsa con Eno e Tomo a correre a piedi nudi al confine del deserto. Poi, tra tanti ricordi ripiegati con cura, riscoprì la sera della piccola festa, quando il padre lo aveva portato a pescare al fiume, e lo spettacolo di marionette, quando aveva capito che muovere quei fili sarebbe diventato il suo mestiere. Nulla di compromettente, pensò. Poi, però, sul fondo della valigia, trovò gli anni della guerra, la fame, le armi, il momento in cui i soldati erano entrati in casa per portare via Eno, gli spari, il sangue. Aveva portato anche quelli con sé. Era impossibile separarsene. Da allora nulla era stato più come prima. Lui non era stato più quello di prima. Richiuse la valigia e la ripose sul nastro. «Niente da dichiarare», mentì. Intanto era sicuro che sapevano già tutto. «Il capo dice di conoscerla e che chiuderemo un occhio sui documenti. Ha ucciso una persona». «Sì», rispose tristemente Sef. «Perché?» «Per difendere mio fratello. Volevano arruolarlo nelle milizie. Aveva solo otto anni». «Buono o cattivo che fosse, per me vale comunque uno. Sulle attenuanti deciderà il capo», ribadì l'impiegato applicando un’etichetta alla maniglia della valigia. «Spera ancora di salvarsi?» Sef fece segno di no. «Non io. Non mi interessa più». Eppure la speranza era ancora in lui, come quando aveva iniziato il suo viaggio, percorrendo migliaia e migliaia di chilometri, sopportando la fame e la sete, con Eno sulle spalle fino alle luci dell'alba e fino alla notte, la notte nera e profonda che sapeva di salmastro e che bagnava i vestiti, la notte del Mediterraneo, del barcone, della luna appesa come una marionetta al filo invisibile del cielo. La speranza che la valigia di Eno, raggomitolato tra le sue braccia, restasse leggera e che quel sale restasse nel mare e che potesse ricominciare, con o senza di lui. Il trolley andò avanti lungo il nastro, poi cadde sul lato con un tonfo. «Benvenuto nell'aldilà», disse l'impiegato. Sef abbassò gli occhi e passò oltre il cancello. Non vedeva l'ora di mettersi sotto la doccia, ma iniziava a dubitare che avessero l'acqua fredda laggiù.  

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